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Lo hobbit, la battaglia delle cinque armate – regia di P. Jackson
***ATTENZIONE! IRONIA E SPOILER!***
Dopo cinque film, innumerevoli ore di proiezione, centinaia di pagine di sceneggiatura, siamo arrivati alla fine di questo lungo viaggio nella Terra di Mezzo.
La battaglia delle cinque armate è il capitolo conclusivo del lungo prequel dei fatti ampiamente dettagliati ne Il Signore degli Anelli.
Il film si apre un attimo dopo la conclusione del capitolo precedente, quando Smaug, un po’ incazzato perchè i nani sono penetrati nella sua fortezza sotto la montagna e hanno cercato di portare via il suo oro, va a sfogare la sua infuocata collera sugli abitanti di Pontelagolungo. Nell’arco di un quarto d’ora il drago muore, e lì lo spettatore sprovveduto si chiede “Adesso di che cosa rempiamo i prossimi 130 minuti?”.
Perchè se è vero che il serpentiforme ha lasciato definitivamente incustodito il suo nido, Thorin non ha ancora vinto: Erebor ha al suo seguito solo un manipolo di nani, e la smisurata ricchezza in essa celata fa gola a tanti, troppi.
La voce della liberazione da Smaug si sparge in fretta, e ben presto Thorin si trova alla porta una legione di elfi, capitanati dal sempre algido Thranduil (Lee Pace non sbatte nemmeno le palpebre!) che ambisce a riavere i preziosi gioielli eredità del suo popolo, lo sparuto gruppo di superstiti di Pontelagolungo guidati da Bard (che vorrebbero qualche spicciolo per rifarsi una vita), e gli orchi che vedono nelle stanze finalmente libere di Erebor una ottima occasione per menare le mani e fare fuori un po’ di nani.
Ho sentito descrivere il Thorin Scudodiquercia di Richard Armitage come “shakespeariano”. Io non ne so niente di recitazione, men che meno elisabettiana, però è innegabile che l’espressività di Thorin sia un qualcosa che buca lo schermo e che di rado si vede nella recitazione contemporanea cinematografica. Favorito anche dal magnifico trucco di scena, Thorin appare con un uomo magnetico, carismatico, che a causa della “sindrome del drago” perde il lume della ragione, cede alla cupidigia (gli si arrota la esse facendoci ricordare un altro “tesssoro”), arriva a rimangiarsi la sua stessa parola di re e ad avere allucinazioni visive e uditive.
Bilbo rimane il magnifico borghesotto inglese del primo film, furbo ma di buon cuore, animato dai sentimenti e dai dubbi più semplici, senza lasciarsi scalfire dalle beghe di potere e ricchezza.
Anche in questo episodio, più che nei precedenti, il personaggio di Tauriel risulta smaccatamente fuori posto. Non so se per responsabilità diretta dell’attrice, dell’autore dei dialoghi o della doppiatrice, ma quasi ogni battuta pronunciata risulta fintissima, costruita e inverosimile. Un personaggio che fa credibilmente bene solo menare le mani (da buona elfa guerriera e braccio destro del sempre biondissimo Legolas) e che, quando non lo fa, si guarda attorno con occhi spiritati (la “vista da elfo” è una maledizione, in questo caso) o si dispera per il suo amore tormentato per Kili, amore che non siamo riusciti a digerire nemmeno in tre anni dal primo film. Gli elfi sono creature immortali senza cuore e senza passioni, gelidi, altezzosi e anche razzisti: così ci sono stati dipinti fino ad ora da Tolkien in primis, e questa sanguigna elfa dai capelli rossi suona stonato in ogni circostanza.
Il film si conclude con qualche lacrimuccia di rito (ho già spoilerato abbastanza), anche per essere ormai arrivati a dover dire addio al magico mondo della Terra di Mezzo, con i suoi complessi equilibri, i suoi orizzonti affascinanti e i suoi personaggi valorosi e carismatici. Si conclude con una carrellata di ritratti dei personaggi, accompagnati da una canzone malinconica, composta ed eseguita da Billy Boyd, il Pipino de Il signore degli anelli.
Farewell. E’ stato un vero piacere.
Titoli di coda.
Recensione scritta da Sayu
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