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Cinquanta sfumature di grigio – regia di S. Taylor-Johnson
Premettendo che non abbiamo letto il romanzo di riferimento, siamo riusciti comunque a capire piuttosto bene la trama, aggiungiamo anche noi i nostri due centesimi su una storia sulla quale chiunque ha scritto tutto ed il contrario di tutto.
Abbiamo trovato il film Cinquanta sfumature di grigio particolarmente divertente, ma non in senso buono. Ecco, il termine più corretto dovrebbe essere ridicolo.
Al di là della pochezza della trama e delle falle logiche piuttosto ingenti che costituiscono il telaio su cui si basa la storia, le enfasi e la recitazione degli attori è degna delle peggiori soap opera.
Va dato credito per lo meno che la famigerata battuta “Io non faccio l’amore.” eccetera, che ci hanno detto come degna del migliore WTF?!, in lingua originale almeno è tollerabile, e la faccia di Ana in quel momento (sconcerto e malcelato ironico divertimento) rappresenta piuttosto bene il sentimento del pubblico.
In generale comunque la sensazione è quella di avere di fronte un pessimo film, sia per la recitazione degli attori (il Grey è stato scelto *malissimo*, un volto meno espressivo e meno comunicativo non era possibile trovarlo, e considerando che il film è concentrato su primi piani…), per la qualità narrativa e per i contenuti, inesistenti se non pericolosamente fuorvianti, particolare non da poco considerando che viene trattato (male) un argomento delicato ed estremamente complesso come i rapporti di dominazione-sottomissione, il bondage, e più in generale la consensualità nelle pratiche sessuali “particolari”.
Il risultato è un accrocchio pruriginoso per educande, perchè per qualunque persona (uomo o donna) che abbia un minimo di rapporto ragionato con il sesso e il proprio corpo, un film del genere non può che apparire privo di particolari attrattive.
Un film ideale per una serata tra amiche all’insegna del disimpegno, senza badare ai sottotesti di romanticismo a tutti i costi e senza credere ad alcunchè di quello che viene illustrato.
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Il romanzo: Cinquanta sfumature di grigio [Copertine Assortite]
Il labirinto – regia di W. Ball
Un gruppo di ragazzi vive in una radura circondata da un labirinto misterioso. Ogni mese, insieme ai viveri, viene consegnato un nuovo giovane. Nessuno ricorda la propria vita precedente e men che meno il motivo per cui sono lì. Quando Thomas arriva nella radura, qualcosa comincia a cambiare nella routine quotidiana che affrontano i giovani, e il culmine si raggiunge quando viene consegnata Teresa, la prima e unica ragazza. Thomas e un gruppo di intrepidi ragazzi percorreranno il labirinto alla ricerca di una via d’uscita, mettendo a rischio le proprie vite e scoprendo parte di una verità che non avrebbero mai potuto immaginare.
Il labirinto, trasposizione cinematografica del primo romanzo della trilogia di James Dashner di The maze runner, è un film gradevole dedicato allo stesso pubblico del romanzo, young adult, che affonda volentieri nel citazionismo. L’uscita del film nello stesso periodo della saga Hunger Games è incidentale e voluta: il primo romanzo di Dashner è uscito l’anno successivo al primo romanzo della Collins. Le influenze distopiche sono simili, se non vogliamo credere ad una influenza diretta.
Anche in questo caso abbiamo, al di là di questa entità forte esterna che governa e dirige (ne Il labirinto in modo diretto e cruento attraverso l’utilizzo del labirinto stesso come forma di coercizione e dei Dolenti, ibridi tecnobiologici dagli scopi omicidi) le vite di questi giovani, una situazione precedente caratterizzata dall’apatia, dall’accettazione supina del potere. Poi, quando l’elemento disturbante entra in campo (Thomas, o Katniss), ecco che l’equilibrio nella gabbia dorata si spezza e si scatena la rivolta.
Al di là della filosofia, la trama de Il labirinto risulta particolarmente deboluccia, specie vista a posteriori, quando viene svelato (almeno in parte, nella misura in cui fa comodo rendere edotto lo spettatore) quello che c’è dietro, o meglio fuori, dal labirinto. Da qui si apre un nuovo scenario che si scoprirà, come nei migliori serial, nella prossima puntata.
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Il romanzo: Il labirinto. Maze Runner: 1
Sono il numero quattro – P. Lore
Su un pianeta un tempo florido e fertile viveva una popolazione antropomorfa e progredita, in pace con la natura e tra loro stessi. Un giorno gli abitanti di un pianeta vicino, spinti dalle ormai ridotte disponibilità del proprio mondo di origine, invade il bel pianeta distruggendo i suoi pacifici abitanti. Solo un manipolo di nove bambini con i rispettivi accompagnatori riesce ad imbarcarsi su una navicella per cercare fortuna altrove, sul pianeta Terra, e poter un giorno far rinascere la civiltà d’origine.
I nove piccoli saranno protetti da un incantesimo, perchè gli invasori cercheranno di annietarli anche sulla Terra.
Sono il numero quattro racconta le vicende del Numero Quattro, appunto, adolescente che gira per gli Stati Uniti insieme al suo padre putativo e mentore Henri, cambiando in continuazione vita ed identità per sfuggire ai Mogadorian, il popolo invasore. In questo romanzo gradevole ma fortemente orientato ad un pubblico adolescente, con ritmo serrato vediamo il progredire delle conoscenze e delle peculiari capacità del ragazzo, mentre si confronta con le normali difficoltà di un adolescente qualsiasi: la scuola, i bulli, il primo amore.
Nel complesso la lettura è piacevole, sebbene lo stile, il ritmo estremamente sincopato e una certa ingenuità di fondo stridono un po’ davanti agli occhi di un lettore più adulto e smaliziato.
Anche la finzione meta-narrativa secondo la quale il romanzo stesso che il lettore ha in mano sia stato scritto da un Antico, un personaggio citato all’interno del testo, suona un po’ immotivata e forzata. Per un vero esperimento meta-narrativo aspettiamo di rifarci presto su S. il romanzo di J.J.Abrams.
Due note in chiusura: questo romanzo naturalmente è il primo di una saga di sette, al momento in cui scriviamo l’episodio conclusivo non è ancora stato pubblicato. E nel 2011 di questo romanzo è stato realizzato un film omonimo, diretto da D. J. Caruso.
E’ possibile trovare in calce alla recensione i link dei romanzi e del film.
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Sono il numero quattro
Il potere del numero sei
La vendetta del numero nove
La sfida del numero cinque
Il ritorno del numero sette
Il film: Sono Il Numero Quattro
Noi siamo infinito – regia di S. Chbosky
Ho letto questo libro perchè avevo sentito parlare molto bene del film. Dopo aver scoperto, poi, che l’autore è anche il regista del film stesso, ho deciso di completare l’opera guardando anche quest’ultimo, prima di fare la recensione.
Credo di aver fatto bene.
Noi siamo infinito, altrimenti noto come Ragazzo da parete o anche La fortuna dell’essere timidi che hanno tradotto in modo così poco univoco il titolo originale “The perks of being wallflower” di Stephen Chbosky, è diventato a pieno titolo, qualche anno fa, un libro cult per il publico young adult. E, anche se sono fuori tempo massimo di qualche anno, credo di aver capito perchè.
Questo romanzo affronta con delicatezza e sensibilità una storia che in molti possono sentire come propria. Charlie, un ragazzo timido e sensibile, deve iniziare il suo percorso scolastico alle superiori. Non ha amici e non conosce nessuno, quindi decide di scrivere delle lettere ad un ragazzo sconosciuto, che possiamo essere noi lettori o che può essere sè stesso come in un diario, per farsi forza e tenere il filo dei propri pensieri.
Grazie a questa finzione narrativa scopriamo la particolare intelligenza di Charlie, il suo spirito di osservazione, la sua fragilità. E conosciamo quelli che pian piano diventano i suoi amici più leali, Patrick e Sam, studenti dell’ultimo anno, che lo aiuteranno ad affrontare questo delicato momento di vita e al contempo a fronteggiare finalmente i demoni del passato, per guardare con nuova fiducia al futuro.
Consiglio di godere di entrambe le opere, quella letteraria prima e quella cinematografica poi, poichè essendo nati entrambi dalla stessa penna, si compenetrano completandosi a vicenda.
Se il libro è più fine e sottile nell’affrontare alcune sfaccettature introspettive di Charlie e in generale dei protagonisti, il film semplifica la storia verso la sua essenzialità, mutuando dalla capacità espressiva degli attori i dettagli di una vicenda delicata e intelligente.
Ho apprezzato molto la storia e mi sono sentita molto vicina al personaggio di Charlie, come immagino gran parte dei lettori di tutte le epoche abbiano sempre fatto con i romanzi di formazione, ma se la lettura del libro mi ha lasciata con una sensazione di tranquilla positività, il film è riuscito a turbarmi molto di più, facendomi sentire di nuovo quindicenne, incasinata come oggi e quasi più di allora, con uno struggente desiderio di arrivare ad afferrare finalmente quella fiducia, quella chiarezza, quell’equilibrio che i protagonisti sembrano vedere di fronte a loro alla fine del film, passando a tutta velocità sotto il tunnel, verso il futuro.
Recensione scritta da Sayu
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The Imitation Game – regia di M. Tyldum
Un giovane e brillante matematico, Alan Turing, viene reclutato dal governo britannico per lavorare ad un progetto top secret: decodificare i messaggi tedeschi criptati con la macchina Enigma e utilizzare le informazioni acquisite per vincere la guerra.
Questo incarico permetterà ad Alan non solo di fronteggiare una delle più grandi sfide all’ingegno umano ma anche di gettare le basi concrete di quello che oggi pervade la nostra vita quotidiana moderna.
Sarà che la storia di Turing a grandi linee la conoscevo già e che già da tempo sono “fan” di questo genio incompreso che ha cambiato la storia, la scienza e la tecnologia moderna, sarà che è stato un uomo tanto geniale quanto sfortunato e bistrattato… sarà che in sintesi avevo qualche pregiudizio positivo sulla faccenda, ma a me questo film è piaciuto.
The imitation game propone al grande pubblico, forse per la prima volta, la storia di un genio tormentato, e forse il semplice fatto di renderla soggetto di un film è già una piccola vittoria.
Non che questo film sia un oggettivo capolavoro, anzi. In primis, il sempre tanto osannato Benedict Cumberbatch mi è personalmente insopportabile, in generale e in particolare in questo film. La scelta di rappresentarlo secondo i più tipici clichè dell’autismo è risultata di certo la più semplice e funzionale per lo sviluppo del personaggio, ma probabilmente è stata calcata un po’ troppo la mano rispetto alla realtà dei fatti.
La presenza del personaggio femminile di Keira Knightley, aggiunta rispetto alla biografia di Andrew Hodges dalla quale è stato tratto il film, è utile per lo sviluppo del lato umano di Turing, ma si presta anche in questo caso a scene di scarsa originalità.
E’ chiaro come argomenti quali la matematica, la meccanica, gli algoritmi, che hanno ampi risvolti tecnici che possono essere di difficile compresione per chi non è del ramo, devono essere per forza semplificati per essere fruibili dal più ampio pubblico possibile, ma senza scadere nel semplicistico, come invece è stato fatto nel film in più punti, alcuni marginali e altri cruciali.
Nel complesso probabilmente The imitation game è un film che a uno spettatore medio può risultare insipido e noioso, perchè privo di particolari attrattive, azione, mistero o storie d’amore, almeno rispetto alla media offerta oggi. Per chi invece ha qualche conoscenza pregressa o per chi, come me, già ammirava la figura dello scenziato, il film può suscitare un sentimento di tenerezza, verso quest’uomo geniale e vituperato, e quindi risultare una visione piacevole anche se forse non imprescindibile.
Recensione scritta da Discordia
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Lo hobbit, la battaglia delle cinque armate – regia di P. Jackson
***ATTENZIONE! IRONIA E SPOILER!***
Dopo cinque film, innumerevoli ore di proiezione, centinaia di pagine di sceneggiatura, siamo arrivati alla fine di questo lungo viaggio nella Terra di Mezzo.
La battaglia delle cinque armate è il capitolo conclusivo del lungo prequel dei fatti ampiamente dettagliati ne Il Signore degli Anelli.
Il film si apre un attimo dopo la conclusione del capitolo precedente, quando Smaug, un po’ incazzato perchè i nani sono penetrati nella sua fortezza sotto la montagna e hanno cercato di portare via il suo oro, va a sfogare la sua infuocata collera sugli abitanti di Pontelagolungo. Nell’arco di un quarto d’ora il drago muore, e lì lo spettatore sprovveduto si chiede “Adesso di che cosa rempiamo i prossimi 130 minuti?”.
Perchè se è vero che il serpentiforme ha lasciato definitivamente incustodito il suo nido, Thorin non ha ancora vinto: Erebor ha al suo seguito solo un manipolo di nani, e la smisurata ricchezza in essa celata fa gola a tanti, troppi.
La voce della liberazione da Smaug si sparge in fretta, e ben presto Thorin si trova alla porta una legione di elfi, capitanati dal sempre algido Thranduil (Lee Pace non sbatte nemmeno le palpebre!) che ambisce a riavere i preziosi gioielli eredità del suo popolo, lo sparuto gruppo di superstiti di Pontelagolungo guidati da Bard (che vorrebbero qualche spicciolo per rifarsi una vita), e gli orchi che vedono nelle stanze finalmente libere di Erebor una ottima occasione per menare le mani e fare fuori un po’ di nani.
Ho sentito descrivere il Thorin Scudodiquercia di Richard Armitage come “shakespeariano”. Io non ne so niente di recitazione, men che meno elisabettiana, però è innegabile che l’espressività di Thorin sia un qualcosa che buca lo schermo e che di rado si vede nella recitazione contemporanea cinematografica. Favorito anche dal magnifico trucco di scena, Thorin appare con un uomo magnetico, carismatico, che a causa della “sindrome del drago” perde il lume della ragione, cede alla cupidigia (gli si arrota la esse facendoci ricordare un altro “tesssoro”), arriva a rimangiarsi la sua stessa parola di re e ad avere allucinazioni visive e uditive.
Bilbo rimane il magnifico borghesotto inglese del primo film, furbo ma di buon cuore, animato dai sentimenti e dai dubbi più semplici, senza lasciarsi scalfire dalle beghe di potere e ricchezza.
Anche in questo episodio, più che nei precedenti, il personaggio di Tauriel risulta smaccatamente fuori posto. Non so se per responsabilità diretta dell’attrice, dell’autore dei dialoghi o della doppiatrice, ma quasi ogni battuta pronunciata risulta fintissima, costruita e inverosimile. Un personaggio che fa credibilmente bene solo menare le mani (da buona elfa guerriera e braccio destro del sempre biondissimo Legolas) e che, quando non lo fa, si guarda attorno con occhi spiritati (la “vista da elfo” è una maledizione, in questo caso) o si dispera per il suo amore tormentato per Kili, amore che non siamo riusciti a digerire nemmeno in tre anni dal primo film. Gli elfi sono creature immortali senza cuore e senza passioni, gelidi, altezzosi e anche razzisti: così ci sono stati dipinti fino ad ora da Tolkien in primis, e questa sanguigna elfa dai capelli rossi suona stonato in ogni circostanza.
Il film si conclude con qualche lacrimuccia di rito (ho già spoilerato abbastanza), anche per essere ormai arrivati a dover dire addio al magico mondo della Terra di Mezzo, con i suoi complessi equilibri, i suoi orizzonti affascinanti e i suoi personaggi valorosi e carismatici. Si conclude con una carrellata di ritratti dei personaggi, accompagnati da una canzone malinconica, composta ed eseguita da Billy Boyd, il Pipino de Il signore degli anelli.
Farewell. E’ stato un vero piacere.
Titoli di coda.
Recensione scritta da Sayu
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Hunger Games, Il canto della rivolta parte 1 – regia di F. Lawrence
Avevamo lasciato Katniss in balia dell’orrore e della confusione più totale: l’arena dei giochi dell’Edizione della Memoria è stata infranta, un hovercraft è arrivato per prelevare lei e altri tributi mentre Peeta e Johanna sono stati lasciati sul campo di battaglia, in balia degli emissari di Capital City.
Ed è così che ritroviamo Katniss in questo episodio di transazione verso il climax finale della saga Hunger Games: una ragazza cresciuta troppo in fretta e sfibrata da giochi di potere più grandi di lei, circondata da persone che la vogliono usare come simbolo e che come tale la trattano.
L’unico suo vero desiderio in questo momento sarebbe quello di uscire da quell’incubo in cui le circostanze e il suo spirito di sopravvivenza (in realtà lo spirito di salvare le persone a lei care dalla sofferenza) l’hanno gettata suo malgrado.
Nell’illustrare questa situazione di disequilibrio, il regista e gli attori stessi sono molto efficaci. La Katniss della Lawrence risulta distrutta emotivamente, schiacciata dalla paura di poter concretamente perdere del tutto Peeta e allo stesso tempo di mettere a rischio la vita di sua madre, sua sorella e di Gale, che dimostra di nutrire un amore tanto disperato quanto univoco nei suoi confronti. La Alma Coin presidente del distretto 13 di Julianne Moore, spalleggiata dal compianto Philip Seymour Hoffman nei panni di Plutarch Heavensbee, è rapidamente insopportabile, con la sua aria di onestà che lascia aperti moltissimi interrogativi.
Tutti gli attori si impegnano al massimo per raggiungere l’obiettivo finale: confezionare un film dal ritmo incalzante ma non convulso, più psicologico che clamorosamente violento, in preparazione dell’atto finale.
E’ pur vero che alcuni hanno rilevato una certa diluizione della storia in virtù della separazione in due parti del romanzo conclusivo della trilogia; a nostro avviso invece abbiamo trovato una forte aderenza al romanzo, che viene seguito con precisione e senza tagli, ma allo stesso tempo senza palesi punti morti.
Dobbiamo pur dire che Katniss indugia in molte scene in uno stato palesemente stuporoso che alla lunga può risultare irritante, è allo stesso tempo altrettanto vero che chiunque in una situazione analoga, lo stupore sarebbe probabilmente l’effetto minimo ottenibile.
Nel complesso dobbiamo plaudere a questo terzo episodio, che tiene bene e fa il suo mestiere, magari senza fuochi d’artificio ma con piena dignità.
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Hunger games
La ragazza di fuoco.
Il canto della rivolta.
Mystic river – regia di C. Eastwood
Tre ragazzini, nella provincia americana, conoscono la tragedia: uno di questi viene rapito per quattro giorni finchè non riesce a fuggire. Passano gli anni, ognuno segue la propria vita, ma tutto sembra incrinato. E quando un’altra tragedia colpisce uno dei tre uomini, si troveranno a fronteggiare nuovamente i fantasmi del passato, scoprendo che nulla è mai stato davvero superato.
Mystic river è forse uno dei più celebri film diretti da Clint Eastwood, ma è forse meno noto che il soggetto è tratto da un romanzo di Dennis Lehane, La morte non dimentica. Per quanto la trama sia semplice e non ci siano spettacolari effetti speciali o colpi di scena straordinari, si può certo dire che si tratti di un Bel Film. Per ovvi motivi tutto il focus è incentrato sulle dinamiche e sui processi interiori dei tre protagonisti e dei comprimari, ma la struttura del film riesce a valorizzare efficacemente questo aspetto, rendendo il film estremamente denso e cadenzato dagli eventi che si susseguono quasi torpidi, fino al crescendo in cui finalmente si scopre la soluzione della drammatica vicenda.
Una bella esperienza cinematografica, un buon esempio di film di qualità senza strepiti, tenuto insieme dall’abilità degli attori e della regia.
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