Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]
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Le origini occulte della musica – E. Perucchietti
Spesso nella storia contemporanea della musica (ma anche dell’arte in senso ampio) si sono attribuiti poteri o collusioni con l’occulto di cantanti e artisti, per la loro immagine di sregolatezza, per le abitudini sopra le righe e per i testi stessi delle canzoni.
Enrica Perucchietti nel primo volume di Le origini occulte della musica fa una panoramica dei nomi più noti della musica, con un breve escursus partendo da Mozart per ampliare il focus tra gli anni ’50 e ’70. Con un elevato grado di approfondimento e l’analisi di numerossissime fonti, l’autrice illustra gli aspetti più oscuri della vita delle star.
Da espliciti patti con gli inferi, a messe nere, sacrifici di sangue e accordi con gli alieni, fino agli abusi di droga e sostanze psicotrope che hanno amplificato paranoie e depressioni di personaggi già fragili e influenzabili, l’autrice pone l’accento in particolare sui seguaci diretti e indiretti delle teorie di Crowley, da cui sono scaturite sette e gruppi di potere.
Una panoramica dettagliata e interessante, un saggio chiave per tutti gli appassionati del genere di informazione alternativa, che consente una rilettura delle biografie dei personaggi celebri, talvolta scomparsi in circostanze misteriose.
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The Imitation Game – regia di M. Tyldum
Un giovane e brillante matematico, Alan Turing, viene reclutato dal governo britannico per lavorare ad un progetto top secret: decodificare i messaggi tedeschi criptati con la macchina Enigma e utilizzare le informazioni acquisite per vincere la guerra.
Questo incarico permetterà ad Alan non solo di fronteggiare una delle più grandi sfide all’ingegno umano ma anche di gettare le basi concrete di quello che oggi pervade la nostra vita quotidiana moderna.
Sarà che la storia di Turing a grandi linee la conoscevo già e che già da tempo sono “fan” di questo genio incompreso che ha cambiato la storia, la scienza e la tecnologia moderna, sarà che è stato un uomo tanto geniale quanto sfortunato e bistrattato… sarà che in sintesi avevo qualche pregiudizio positivo sulla faccenda, ma a me questo film è piaciuto.
The imitation game propone al grande pubblico, forse per la prima volta, la storia di un genio tormentato, e forse il semplice fatto di renderla soggetto di un film è già una piccola vittoria.
Non che questo film sia un oggettivo capolavoro, anzi. In primis, il sempre tanto osannato Benedict Cumberbatch mi è personalmente insopportabile, in generale e in particolare in questo film. La scelta di rappresentarlo secondo i più tipici clichè dell’autismo è risultata di certo la più semplice e funzionale per lo sviluppo del personaggio, ma probabilmente è stata calcata un po’ troppo la mano rispetto alla realtà dei fatti.
La presenza del personaggio femminile di Keira Knightley, aggiunta rispetto alla biografia di Andrew Hodges dalla quale è stato tratto il film, è utile per lo sviluppo del lato umano di Turing, ma si presta anche in questo caso a scene di scarsa originalità.
E’ chiaro come argomenti quali la matematica, la meccanica, gli algoritmi, che hanno ampi risvolti tecnici che possono essere di difficile compresione per chi non è del ramo, devono essere per forza semplificati per essere fruibili dal più ampio pubblico possibile, ma senza scadere nel semplicistico, come invece è stato fatto nel film in più punti, alcuni marginali e altri cruciali.
Nel complesso probabilmente The imitation game è un film che a uno spettatore medio può risultare insipido e noioso, perchè privo di particolari attrattive, azione, mistero o storie d’amore, almeno rispetto alla media offerta oggi. Per chi invece ha qualche conoscenza pregressa o per chi, come me, già ammirava la figura dello scenziato, il film può suscitare un sentimento di tenerezza, verso quest’uomo geniale e vituperato, e quindi risultare una visione piacevole anche se forse non imprescindibile.
Recensione scritta da Discordia
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Internet apocalypse – W. Gladstone
In un futuro quantomai prossimo, l’apocalisse si scatena implacabile, in tutto il mondo. La psicosi è in agguato, il panico e l’instabilità si scatenano nell’arco di pochi giorni, e tutti si chiedono come e perchè e come potranno sopravvivere in queste nuove condizioni.
No, non stiamo parlando di un’(ennesima) epidemia zombie, bensì del concept ironico e non poi così surreale di Internet apocalyspe, di Wayne Gladstone: cosa succederebbe se da un giorno all’altro Internet non ci fosse più?
Dopo i primi giorni di sconcerto, tantissimi si troverebbero senza lavoro, ma al contempo molti altri impieghi si renderebbero indispensabili, come i consultatori di biblioteche, per trovare risposte rapide ed esaurienti in mancanza di Google e Wikipedia; i più ossessionati dalla rete ricreerebbero i loro siti e social network preferiti, offline, mentre altri cercherebbero gli stessi svaghi malsani e spegni-cervello della rete, diventando quasi come zombie.
In tutto questo, tutti si chiederebbero: che fine ha fatto Internet?
Gladstone, a New York, si trova suo malgrado ad essere proprio il fulcro di questa domanda e si metterà alla ricerca di Internet insieme a due bizzarri compagni di viaggio.
Gladstone, l’autore, costruisce un romanzo ironico e surreale, che dapprima fa il verso ai romanzi zombie, poi prende in giro gli internet-dipendenti, con le loro manie, meme e ossessioni, poi fa una parodia più ampia dell’America moderna, per approdare infine in una amara introspezione, inattesa quanto cruda.
Un libro decisamente singolare, molto piacevole e divertente, che concede, come tutta la satira di qualità, una visione intelligente sulla realtà di oggi e su noi stessi.
Lettura estremamente consigliata e perfetto regalo di Natale per quell’amico un po’ troppo fissato con Facebook…
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Lo hobbit, la battaglia delle cinque armate – regia di P. Jackson
***ATTENZIONE! IRONIA E SPOILER!***
Dopo cinque film, innumerevoli ore di proiezione, centinaia di pagine di sceneggiatura, siamo arrivati alla fine di questo lungo viaggio nella Terra di Mezzo.
La battaglia delle cinque armate è il capitolo conclusivo del lungo prequel dei fatti ampiamente dettagliati ne Il Signore degli Anelli.
Il film si apre un attimo dopo la conclusione del capitolo precedente, quando Smaug, un po’ incazzato perchè i nani sono penetrati nella sua fortezza sotto la montagna e hanno cercato di portare via il suo oro, va a sfogare la sua infuocata collera sugli abitanti di Pontelagolungo. Nell’arco di un quarto d’ora il drago muore, e lì lo spettatore sprovveduto si chiede “Adesso di che cosa rempiamo i prossimi 130 minuti?”.
Perchè se è vero che il serpentiforme ha lasciato definitivamente incustodito il suo nido, Thorin non ha ancora vinto: Erebor ha al suo seguito solo un manipolo di nani, e la smisurata ricchezza in essa celata fa gola a tanti, troppi.
La voce della liberazione da Smaug si sparge in fretta, e ben presto Thorin si trova alla porta una legione di elfi, capitanati dal sempre algido Thranduil (Lee Pace non sbatte nemmeno le palpebre!) che ambisce a riavere i preziosi gioielli eredità del suo popolo, lo sparuto gruppo di superstiti di Pontelagolungo guidati da Bard (che vorrebbero qualche spicciolo per rifarsi una vita), e gli orchi che vedono nelle stanze finalmente libere di Erebor una ottima occasione per menare le mani e fare fuori un po’ di nani.
Ho sentito descrivere il Thorin Scudodiquercia di Richard Armitage come “shakespeariano”. Io non ne so niente di recitazione, men che meno elisabettiana, però è innegabile che l’espressività di Thorin sia un qualcosa che buca lo schermo e che di rado si vede nella recitazione contemporanea cinematografica. Favorito anche dal magnifico trucco di scena, Thorin appare con un uomo magnetico, carismatico, che a causa della “sindrome del drago” perde il lume della ragione, cede alla cupidigia (gli si arrota la esse facendoci ricordare un altro “tesssoro”), arriva a rimangiarsi la sua stessa parola di re e ad avere allucinazioni visive e uditive.
Bilbo rimane il magnifico borghesotto inglese del primo film, furbo ma di buon cuore, animato dai sentimenti e dai dubbi più semplici, senza lasciarsi scalfire dalle beghe di potere e ricchezza.
Anche in questo episodio, più che nei precedenti, il personaggio di Tauriel risulta smaccatamente fuori posto. Non so se per responsabilità diretta dell’attrice, dell’autore dei dialoghi o della doppiatrice, ma quasi ogni battuta pronunciata risulta fintissima, costruita e inverosimile. Un personaggio che fa credibilmente bene solo menare le mani (da buona elfa guerriera e braccio destro del sempre biondissimo Legolas) e che, quando non lo fa, si guarda attorno con occhi spiritati (la “vista da elfo” è una maledizione, in questo caso) o si dispera per il suo amore tormentato per Kili, amore che non siamo riusciti a digerire nemmeno in tre anni dal primo film. Gli elfi sono creature immortali senza cuore e senza passioni, gelidi, altezzosi e anche razzisti: così ci sono stati dipinti fino ad ora da Tolkien in primis, e questa sanguigna elfa dai capelli rossi suona stonato in ogni circostanza.
Il film si conclude con qualche lacrimuccia di rito (ho già spoilerato abbastanza), anche per essere ormai arrivati a dover dire addio al magico mondo della Terra di Mezzo, con i suoi complessi equilibri, i suoi orizzonti affascinanti e i suoi personaggi valorosi e carismatici. Si conclude con una carrellata di ritratti dei personaggi, accompagnati da una canzone malinconica, composta ed eseguita da Billy Boyd, il Pipino de Il signore degli anelli.
Farewell. E’ stato un vero piacere.
Titoli di coda.
Recensione scritta da Sayu
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Il vizio di Caino – F. Pastori
Flavio è un avvocato mancato, un fotografo di successo che ama vivere fuori dagli schemi, scapestrata pecora nera di una famiglia bene del milanese. Il fratello Filiberto ha ereditato sogni e ambizioni del padre con una carriera irreprensibile, pacatezza e famiglia d’ordinanza.
Finchè Flavio viene richiamato a casa dalla scomparsa misteriosa del fratello e dalla corrispondente apparizione di una serie di filmini amtoriali dal contenuto inequivocabile. Mentre il giovane è sulle tracce del fratello incrocerà una bella e affascinante poliziotta che lo affiancherà nelle indagini in un giro di scambisti e club a luci rosse e incontrerà realtà che non avrebbe mai sospettato…
Il vizio di Caino, di Ferdinando Pastori è un buon noir dal ritmo incalzante, tenuto alto anche dall’utilizzo della prima persona singolare puntata su Flavio, che consente al lettore di essere al centro dell’azione.
La trama si sviluppa in modo abbastanza semplice e lineare, con pochi deviazioni dalla strada principale. I personaggi risultano piuttosto verosimili e ben delineati, anche se talvolta un po’ idealizzati e poco congruenti, come accade in particolare per la figura di Micol. Nel complesso però le azioni e in particolare i dialoghi, spesso punto critico in romanzi di questo genere, appaiono abbastanza fluidi, credibili e piacevoli.
La storia regge bene in tutta la sua lunghezza, tranne forse nella sua espressione finale, la conclusione. Come nei più frustranti romanzi, fino alle battute finali non è dato modo al lettore di provare ad individuare chi è il colpevole del misfatto a fulcro della storia, che entra in scena solo nel momento del climax conclusivo. Anche la drammaticità (forse eccessiva) della scena di chiusura, la stessa confessione del colpevole e il racconto delle sue motivazioni malate sembrano ricalcare un copione già visto e per questo molto impoverito nel potenziale emotivo.
Nel complesso quindi si tratta di una lettura piacevole e coinvolgente, che forse non brilla per originalità ma che può essere considerata una lettura di intrattenimento di buon livello.
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Hunger Games, Il canto della rivolta parte 1 – regia di F. Lawrence
Avevamo lasciato Katniss in balia dell’orrore e della confusione più totale: l’arena dei giochi dell’Edizione della Memoria è stata infranta, un hovercraft è arrivato per prelevare lei e altri tributi mentre Peeta e Johanna sono stati lasciati sul campo di battaglia, in balia degli emissari di Capital City.
Ed è così che ritroviamo Katniss in questo episodio di transazione verso il climax finale della saga Hunger Games: una ragazza cresciuta troppo in fretta e sfibrata da giochi di potere più grandi di lei, circondata da persone che la vogliono usare come simbolo e che come tale la trattano.
L’unico suo vero desiderio in questo momento sarebbe quello di uscire da quell’incubo in cui le circostanze e il suo spirito di sopravvivenza (in realtà lo spirito di salvare le persone a lei care dalla sofferenza) l’hanno gettata suo malgrado.
Nell’illustrare questa situazione di disequilibrio, il regista e gli attori stessi sono molto efficaci. La Katniss della Lawrence risulta distrutta emotivamente, schiacciata dalla paura di poter concretamente perdere del tutto Peeta e allo stesso tempo di mettere a rischio la vita di sua madre, sua sorella e di Gale, che dimostra di nutrire un amore tanto disperato quanto univoco nei suoi confronti. La Alma Coin presidente del distretto 13 di Julianne Moore, spalleggiata dal compianto Philip Seymour Hoffman nei panni di Plutarch Heavensbee, è rapidamente insopportabile, con la sua aria di onestà che lascia aperti moltissimi interrogativi.
Tutti gli attori si impegnano al massimo per raggiungere l’obiettivo finale: confezionare un film dal ritmo incalzante ma non convulso, più psicologico che clamorosamente violento, in preparazione dell’atto finale.
E’ pur vero che alcuni hanno rilevato una certa diluizione della storia in virtù della separazione in due parti del romanzo conclusivo della trilogia; a nostro avviso invece abbiamo trovato una forte aderenza al romanzo, che viene seguito con precisione e senza tagli, ma allo stesso tempo senza palesi punti morti.
Dobbiamo pur dire che Katniss indugia in molte scene in uno stato palesemente stuporoso che alla lunga può risultare irritante, è allo stesso tempo altrettanto vero che chiunque in una situazione analoga, lo stupore sarebbe probabilmente l’effetto minimo ottenibile.
Nel complesso dobbiamo plaudere a questo terzo episodio, che tiene bene e fa il suo mestiere, magari senza fuochi d’artificio ma con piena dignità.
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La ragazza di fuoco.
Il canto della rivolta.
L’amore liquido – G. di Dio
Una vita fino a quel momento idilliaca, all’improvviso si spezza. Le certezze, i sogni, i progetti. Da un momento all’altro tutto è cancellato. Andrea perde l’amata moglie, la sua vita, il suo equilibrio. In una spirale sempre più morbosa, si lega a Lola, una donna corrotta nel corpo e nello spirito, trascinandolo con sè verso l’annientamento, lo squilibrio, il nichilismo. In attesa di redenzione, o di un atto irreparabile.
L’amore liquido, di Giusy di Dio è un romanzo breve ma intenso, che sa scendere con sapienza nell’introspezione del protagonista anche attraverso l’uso originale della seconda persona singolare, giustificato poi nell’epilogo.
Interessante e sconcertante al tempo stesso, delinea una prospettiva inquietante: in fondo può bastare davvero poco per perdere tutte le certezze di una vita.
Allo stesso tempo però, propone un orizzonte positivo: per quanto si possa scendere in basso, può esistere un momento di redenzione, si può ricevere il perdono e l’amore che si è perduto.
Una lettura di certo non di puro svago, ma che offre spunti di riflessione originali e intelligenti.
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Il sentiero della mano sinistra – A. di Piazza
Un efferato delitto nei pressi del parco della Favorita, a Palermo, apre un caso dai tratti preoccupanti. La vittima è un bimbo di otto anni, il corpo composto al centro di uno schema di somboli satanici, su di esso risultano incisi post mortem alcune strane scritte in inglese.
Il caso rientra nelle competenze della squadra dell’ispettore della scientifica Mimmo Abbate e di quella della mobile di Leonardo Bennici, che con un lavoro di sinergia, grazie anche alle capacità e alla stima personale tra i due gruppi, dovranno venire a capo di un enigma che si farà via via sempre più fitto.
Il sentiero della mano sinistra di Annalisa di Piazza è un bel giallo, ottimamente costruito e ben scritto, che riesce perfettamente nel suo scopo primario di incuriosire il lettore attraverso il disvelamento del mistero, ma che al contempo riesce anche a coinvolgerlo con piacere attraverso la vicenda.
Addirittura, il fulcro del romanzo quasi non è il mistero stesso, bensì lo sono i personaggi, con la loro caratterizzazione peculiare e vividissima, a costituire la vera struttura all’intera storia. Le loro caratteristiche, le loro capacità e debolezze, fanno in modo che il romanzo si regga non solo sul mistero in sè e sulle dinamiche ad esso strettamente correlate, ma anche sulle umane vicende che vi ruotano attorno.
Mistero che, va detto, si colloca all’interno di un contesto decisamente non banale e originale, ottimamente poi illustrato da una voce autorevole, la più adatta nel ruolo all’interno del racconto.
Un bel romanzo di esordio per l’autrice, della quale ci auguriamo di poter leggere presto una nuova fatica.
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