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Annessi & Connessi
Per noi, i libri sono una faccenda personale. Benvenuto!
Postato da Legione il 17 Maggio 2015

http://annessieconnessi.net/una-notte-di-ordinaria-follia-a-filisdeo/

Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]

 

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Trainspotting – diretto da D. Boyle

Postato da Legione il 2 Settembre 2010

Questo celebre film del 1996, Trainspotting, diretto da Danny Boyle, narra le vicende malate di un gruppetto di giovani di Edimburgo, tra droga, sesso e violenza. E’ tratto dal magistrale romanzo omonimo di Irvine Welsh del quale abbiamo parlato di recente qui: recensione Trainspotting.
La differenza che salta più all’occhio tra le due opere è l’oganicità del film rispetto al libro. Là dove il romanzo si sviluppava in episodi chiaramente autoconclusivi pur essendo parti di una sola storia, il film raccoglie i fatti più significativi e li pone meglio in relazione uno con l’altro, creando una trama più solida, anche grazie all’uso della voce fuori campo.
Il film è palesemente tratto dall’opera scritta ma non la ricalca alla perfezione, quindi i dialoghi, ad esempio, sono tutti originali, così come gli espedienti narrativi e gergali dei personaggi. Come spesso accade, i personaggi acquistano un volto ma perdono di spessore e profondità. Là dove nel romanzo il vero carattere di ciascuno viene messo in luce dai fatti e dai pensieri quando parla in prima persona, nel film le sfumature vengono messe solo dalla voce narrante.
Il risultato comunque del film di Boyle è buono: è riuscito a cogliere la sfumatura allucinata e dissacrante (e forse proprio per questo ancora più estrema) di questo scenario così poco edificante di certa gioventù degli inizi degli anni Novanta, che però potrebbe essere ben trasposta anche ai giorni nostri, cambiando forse il taglio dei jeans e qualche parola di slang.
Pregevole il giovanissimo Ewan MacGregor nei panni sdruciti di Renton, il Robert Carlyle più che inquietante in quelli del bullo da mezza tacca Bebgie e, ultima ma non ultima, una colonna sonora che la fa da padrona, scelta con grande cura per il particolare.

La stirpe dell’aquila – J. Whyte

Postato da Legione il 30 Agosto 2010

Eccoci al terzo libro della saga Le cronache di Camelot di Jack Whyte. Questo ponderoso episodio, La stirpe dell’aquila, da l’avvio ad una nuova generazione di narratori, prendendo come protagonista il ben noto Merlino, nato in seno alla comunità della Colonia, ribattezzata Camulod. Si raccontano le vicende di Caio Merlino e del cugino, Uther Pendragon, dalla più tenera infanzia fino all’età dei trant’anni, attraverso i decenni e i grandi mutamenti della Britannia durante il disgregamento dell’impero romano.
Abbiamo quindi un’ampia gamma di tematiche trattate, dalle consuete dissertazioni di tattica militare (non sempre semplicissime da afferrare completamente) alle elucubrazioni spirituali e filosofiche, in un’epoca in cui i patriarchi della Chiesa parevano più occuparsi del combattere le ipotetiche eresie invece di coltivare e seguire le scritture. Abbiamo come sempre un forte accento sull’aspetto umano dei protagonisti, quindi leggiamo della dicotomia tra l’amore quasi fraterno tra Merlino e Uther che al contempo si stempera nell’odio e nel sospetto, a causa dei caratteri e delle intime inclinazioni così diverse.
Questo episodio rispetto ai precedenti è un po’ più leggero dal punto di vista della prosa, il protagonista però tende sempre a quell’aura di perfezione che però a Merlino ci sentiamo di perdonare. Per il resto, la narrazione è piuttosto scontata, una volta individuato lo schema e la cadenza degli avvenimenti, niente di eclatante, fino al finale, ovviamente aperto, sanguinoso come non mai, che prepara la strada, finalmente, alla venuta di Artù.

Un indovino mi disse – T. Terzani

Postato da Legione il 24 Agosto 2010

Tiziano Terzani è famoso per i suoi articoli e i reportage di viaggio tra cui si annoverano alcuni tra i suoi libri più famosi. È anche conosciuto per il controverso “Lettere contro la guerra” in cui si schierò contro la guerra americana in Afghanistan: il libro, per molto tempo, non trovò un editore americano disposto a pubblicarlo e circolò quindi gratuitamente in lingua inglese.

Un indovino mi disse è antecedente e racconta l’esperienza vissuta da Terzani nel 1993 quando decise, per il suo lavoro di reporter in Asia, di spostarsi unicamente in treno, auto, a piedi e su nave.
L’aereo era offlimits in quanto un indovino, vent’anni prima, gli aveva predetto la morte se avesse volato in quell’anno futuro.
Terzani, pur scettico, decise di imbarcarsi in questa avventura curiosa e originale che lo portò a viaggiare dalla Thailandia alla Birmania passando per il Vietnam e la Cambogia rigorosamente via terra e via mare.

Un indovino mi disse è un libro affascinante in cui Terzani mostra sia il corpo sia l’anima dei luoghi in cui vive o che attraversa. Un’Asia che pur lanciandosi nelle braccia del progresso occidentale, mantiene uno spirito legato a superstizioni, magie elargite da indovini, più o meno dotati, e vecchie tradizioni misteriose e seducenti.

C’è Singapore e il suo ordine “perfetto”; c’è Bangkok con i suoi angeli e i demoni; c’è la Birmania con il suo isolamento brutale; ci sono la Cambogia e il Vietnam che provano a rialzarsi. E c’è il pellegrinaggio da indovino a indovino che Terzani intraprende con curiosità malinconica.

Alla fine sappiamo come si è concluso il suo lungo viaggio e se da un lato ci colpisce il fatto che, effettivamente, Terzani scampò ad un incidente aereo durante quell’anno, dall’altro è triste ricordare come molti indovini gli avessero predetto una vecchiaia lunga e serena.
Di certo, però, la sua avventurosa vita rimane una fonte inesauribile da cui attingere, ora e in futuro, per conoscere un mondo, a tutti gli effetti, spietatamente meraviglioso.

Recensione scritta da L’imbrattacarte

Trainspotting – I. Welsh

Postato da Legione il 22 Agosto 2010

Se amate leggere libri che siano puliti, aulici, che usino parole ricercate e disegnino in modo chiaro e lineare una storia con personaggi vincenti e a loro modo eroici, Trainspotting non è certo una lettura che fa per voi. Ma non per questo è di inferiore valore, anzi.
Irvine Welsh, con questo romanzo di esordio, ha segnato il punto di partenza di un genere nuovo, che ha dipinto una generazione e che probabilmente ha creato molti pseudocloni con una fortuna decisamente più misera dell’originale.
In Trainspotting tutto è degno di nota, e nulla è lasciato al caso: la storia è narrata in modo estramente frammentario attraverso una serie di episodi, nei quali l’io narrante cambia per ogni protagonista, senza tralasciare il narratore onniscente, e presenta uno scenario che è stato definito caratterizzante della cosiddetta Acid Generation.
E’ questo probabilmente quello che fa risplendere Welsh nella sua nicchia di assoluta letteratura: la capacità di narrare le scene peggiori della gioventù “bruciata” e piegata dalle droghe, dall’alcool o dalle cattive compagnie, pur senza assurgere a giudice e rimanendo sempre, crudamente credibile. Non un attimo ci siamo sentiti in dubbio, in nessuna parola usata abbiamo percepito la finzione di un dialogo. E’ questo quello che rende Irvine Welsh così unico e particolare: racconta una generazione allo sfacelo, mettendo in luce le peculiarità e i pensieri di ciascuno, senza lasciare nulla al caso, curando con attenzione ogni dettaglio, esattamente come nella lettteratura classica, donando spessore ai personaggi ed andando oltre alla maschera di miseria che sta narrando, condendolo con ironia, sarcasmo e semplice filosofia.
Sentiamo di consigliare questo libro a tutti coloro che hanno una vita tranquilla e regolare: dopo la lettura si troveranno ad apprezzarla particolarmente.

Appunti da un manicomio – C. Lavant

Postato da Legione il 19 Agosto 2010

Christine Lavant è una maschera, lo pseudonimo scelto dall’autrice di Appunti da un manicomio per celare la sua vera identità e quella delle persone presenti nel libro.
Dalla sua biografia emerge la permanenza in un manicomio negli anni Trenta e, per quanto non si abbia la certezza che il libro sia la trasposizione romanzata del suo vero diario, risulta comunque evidente il fatto che non si tratti di un semplice volo di fantasia.
Siamo in un manicomio e Christine, la protagonista, ha chiesto di essere internata dopo aver tentato il suicidio. Sta male e da sola non riesce ad uscirne, a liberarsi di quell’ossessione che la tiene sveglia la notte e le impedisce di accettare la vita come fanno tutti gli altri: trovarsi un lavoro, sposarsi, avere dei figli. E morire di vecchiaia.
Christine è innamorata, ma il suo amore non è corrisposto ed è prigioniero dentro di lei: senza luce né aria, quell’amore diventa ben presto un cancro che la divora, fino a farle desiderare di accettare per sé la condizione di “pazza”.
Il pregio di Appunti da un manicomio è la capacità dell’autrice di descrivere la sua permanenza nel manicomio e le altre donne internate, ognuna afflitta da una storia personale che ne ha causato la pazzia. Nessuna delle storie sarà rivelata, il dolore rimarrà, fino all’ultima pagina, il protagonista incontrastato. Quel dolore che, più spesso di quanto si pensi, conduce una persona alla follia, la fa precipitare in un baratro da cui niente e nessuno sembra essere in grado di salvarla: non le persone a cui vuole bene, la famiglia, gli amici, non i medici e le infermiere, non le medicine o la camicia di forza. Dal dolore e dalla paura nessuno ci può salvare, se non noi stessi.
La penna di Lavant tratteggia con dolce lucidità i ritratti di queste donne e il suo stesso dolore, le emozioni contrastanti, i desideri e le paure.
Il manicomio è un microcosmo in cui malate, infermiere e medici si muovono ricoprendo ognuno un ruolo del tutto umano e fallibile.
La Lavant mette a nudo ogni personaggio a partire da caratteristiche esteriori, da quello che fanno o che dicono. È una storia-non storia in cui si avanza in punta di piedi, per non fare rumore, per non disturbare le pazze e chi veglia su di loro, nella speranza di non sfiorare, neppure per un attimo, il dolore che le ha condotte lì e giungere all’ultima pagina come si giunge davanti a una porta che si è grati di potersi chiudere alle spalle. Felici di essere fuori, nel mondo, ma ormai consapevoli che, proprio quel mondo a cui ci aggrappiamo sollevati, è lo stesso da cui le malate di Lavant sono state esiliate per aver troppo sentito e troppo amato.

Recensione scritta da L’Imbrattacarte

Primavera in Borgogna – L. Terenzoni

Postato da Legione il 17 Agosto 2010

Ci sono libri che anche con poche parole, riescono a coinvolgere il lettore nella narrazione. Libri che non hanno bisogno di essere ricercati o elaborati per essere interessanti. Autori che non necessitano di grandi schemi mentali per creare un intreccio accattivante. In particolare, nel genere cosiddetto “giallo”, a volte la semplicità di esposizione e di stile mette in risalto la trama ineccepibile, diventando così un esempio di gradevole letteratura.
E’ certo però, che per ottenere questi effetti positivi occorre essere dei narratori molto abili e smaliziati. Bisogna essere in grado di sapere come e quando calare le proprie carte, giocare con l’interesse del lettore, saperlo guidare esattamente dove si desidera, e poi spiazzarlo, facendogli tenere il fiato sospeso.
Questa abilità, purtroppo, manca nel libro di cui vogliamo parlarvi, Primavera in Borgogna, scritto dall’esordiente Luca Terenzoni e pubblicato dal gruppo Albatros Il Filo.
Questo volume viene presentato come un giallo ambientato nelle campagne della Borgogna, incentrato sul misterioso amministratore di un’azienda vinicola e sul suo oscuro passato.
Di fatto però questo libro non ha alcunchè di giallo, né di misterioso. La trama è molto debole e priva di mordente e di fatto il mistero non esiste. I pochi spunti di possibile interesse (la moglie dell’amministratore e il suo aspetto così dimesso; la collega dal passato triste) vengono polverizzati dal narratore onnisciente che provvede immediatamente a raccontare tutto quello che serve sapere, oppure attraverso dei monologhi inverosimili dei personaggi in questione, che senza apparente sforzo vuotano il sacco con il protagonista di ogni loro più intimo segreto.
Se la trama è scarna, la tensione è inesistente. Il protagonista si fa prendere dalle ansie sul suo datore di lavoro in modo sproporzionato rispetto ai sospetti che nutre, e la sua apprensione non si trasmette mai al lettore, che resta sempre molto in disparte rispetto alla vicenda.
L’espediente narrativo infatti è un’ irritante terza persona, una voce fuori campo, posizionata in genere sul protagonista, ma che cambia spesso imprevedibilmente prospettiva, con effetto spiazzante. Voce narrante che, disgrazia, osa anche rivolgersi direttamente al lettore, più di una volta.
I personaggi non ne escono meglio. Sono tutti completamente bidimensionali, senza volto e senza carattere, quando non sono dei perfetti clichè, come la moglie scialba dell’amministratore o lo stesso protagonista.
Lo stile è insicuro, senza una inclinazione, ricco di incertezze, farraginoso nella costruzione di periodi arzigogolati e a volte impreciso anche dal punto di vista grammaticale. Il lavoro di un buon editor avrebbe potuto quantomeno limitare questo aspetto. I dialoghi sono superficiali e artificiosi, l’uso dei punti esclamativi è inspiegabilmente frequente. Le poche informazioni in funzione dell’intreccio vengono proposte più e più volte in modo ridondante e fastidioso nel giro di una manciata di pagine, in alcuni casi vengono fornite dalla voce di due personaggi diversi e ripresi parola per parola. Non esiste una caratterizzazione del personaggio nel discorso diretto: un poliziotto ed una donna coinvolta emotivamente nella faccenda parlano esattamente allo stesso modo.
Tutto l’insieme risulta una summa di già visti e già letti, culminando in un finale degno del miglior Derrick.
In linea generale, purtroppo, non possiamo fare altro che prendere atto di aver letto opere certamente più ricche di contenuto e talento e più curate dal punto di vista stilistico e di editing, anche prodotti da scrittori esordienti.

Amore, miracoli e guarigione – A. M. Schoen & P. Proctor

Postato da Legione il 14 Agosto 2010

Che cosa significa amare gli animali? Il nostro comportamento nei loro confronti dovrebbe differire da quello che riserviamo ai nostri simili?
Non credo siano domande che ci poniamo spesso, al contrario, di solito chi ama e rispetta gli animali lo fa a modo suo, senza chiedersi se vi sia un modo giusto, uno sbagliato o, semplicemente, uno migliore.
Leggere Amore, miracoli e guarigione di Allen M. Schoen e Pam Proctor è stato illuminante sotto questo punto di vista.
Da qualche mese avevo perso la mia gatta a causa della leucemia felina e, ora, avevo un nuovo inquilino, un gattino vivace che però non sapevo gestire. Avevo anche provato a leggere un manuale sull’educazione del gatto ma con scarsi risultati. E poi è giunto questo regalo.
Finora ero convinta che il rapporto uomo-animale si basasse su un’educazione dell’animale, non avevo mai pensato che potesse invece trattarsi di un’educazione dell’uomo nei confronti dell’animale.
Senza retorica né eccessivo sentimentalismo, il libro del dottor Schoen racconta la sua lunga esperienza di medico veterinario, dagli studi improntati alla medicina veterinaria tradizione all’incontro con i metodi olistici.
Accanto ai numerosi successi — cani, gatti, cavalli curati con le erbe, l’agopuntura, una sana alimentazione — vi sono anche quelli meno fortunati, che nessuna terapia, purtroppo, è stata in grado di salvare. In parte perché la natura fa il suo corso, in parte perché gli animali sono ancora considerati di proprietà dei loro padroni che ne decidono la vita, e la morte.
Esemplare il caso di due ex coniugi che, per troncare ogni legame con il loro passato matrimonio, hanno deciso di far “addormentare” Kimo, il loro cane. Egoismo? Arroganza? Senso di onnipotenza? Purtroppo i casi che testimoniano questi nostri comportamenti nei confronti degli animali sono sempre troppo numerosi.
Comportamenti assurdi come dimostra la storia di quell’uomo che terrorizzava la sua cane lupo, Rosie, con continui rimproveri e insulti. L’uomo, di fronte alla diagnosi che riscontrava un problema psicologico del cane (dovuto al suo atteggiamento minaccioso) ha semplicemente risposto: “Non voglio un cane rammollito. Può tenerlo lei”.
L’approccio olistico del dottor Schoen mostra, invece, il lato sensibile degli animali, il legame che si può instaurare tra un gatto o un cane (o qualsiasi altro animale) e la sua famiglia adottiva. Mette in evidenza i successi ottenuti con l’uso di terapie come le erbe o l’agopuntura in combinazione a terapie e cure della medicina veterinaria tradizionale.
Uno dei pregi che ho riscontrato nel libro è stato il suo tono non didattico, capace di coinvolgere e interessare anche chi di veterinaria o medicina olistica conosce poco o niente.
Tante sono le storie raccontate, storie di amore e crudeltà, di diffidenza e devozione sia da parte degli animali nei confronti della loro “famiglia” sia di noi umani nei confronti di questi amici che non ci tradiscono mai e ci amano per quello che siamo, senza desiderarci diversi.
Amore, miracoli e guarigione è stato pubblicato dalla casa editrice “Impronte di luce” che si contraddistingue per un catalogo di libri in cui il rapporto uomo-natura, uomo-animali viene affrontato da un punto di vista innovativo.
Consiglio il libro a tutti quelli che amano gli animali e vorrebbero relazionarsi in modo più profondo e sincero con loro: le storie dei nostri amici a quattro zampe possono insegnarci molto più di quello che immaginiamo!

Recensione scritta da L’Imbrattacarte

Il re dei cani – C. Betti

Postato da Legione il 12 Agosto 2010

Questo piccolo romanzo storico di Claudia Betti, Il re dei cani, edito da ArpaNet, racconta una storia semplice e toccante. Segue da vicino l’esistenza di un uomo, lasciato volutamente senza nome, che fin dalla più tenera infanzia vive affiancato dai cani, che lo eleggono sempre, misteriosamente, come loro padrone e guida. Sullo sfondo, la dura realtà della guerra, la fame, la morte, la paura e la dura ricostruzione dell’equilibrio perduto.
Questo libro, quasi più un racconto che non un romanzo vero e proprio, ci ha colpiti per la sua semplicità. La storia è narrata in terza persona con un punto di vista distaccato e quasi sempre puntato sul protagonista, questo ragazzo senza nome e senza volto, che cresce ed attraversa le difficoltà della guerra e della vita. A tratti, la narrazione sequenziale viene interrotta da frammenti riferiti al presente del protagonista.
Accanto alla semplicità della storia abbiamo la prosa, che non è semplicistica, ma ben si accorda con ciò che racconta. Ci sono delle imperfezioni stilistiche: molti passaggi potrebbero essere ampliati, alcune volte il punto di vista del narratore si perde tra un personaggio e l’altro e spesso si cerca di esplicare dall’esterno quello che forse più efficacemente avrebbe potuto essere mostrato o lasciato sottinteso, permettendo alle azioni di parlare da sole; ma questi piccoli nei sono fisiologici in un’opera prima e comunque nulla che non possa essere migliorato con un po’ di esperienza.
La storia è chiara e lineare, forse un po’ volutamente favolistica, i personaggi sono appena accennati e tutti con un’accezione fortemente positiva, che contrasta con il contesto storico di grande durezza. Nella figura canina, a volte defilata ma sempre presente, si può riscontrare una simbologia di fedeltà e umiltà, che apporta al racconto una buona dose emotiva.
Nel complesso, Il re dei cani è un racconto toccante e delicato, che coinvolge il lettore con gentilezza e lo commuove, davanti ai suoi protagonisti umili ma veri e la naturale dimostrazione di affetto e dedizione tipica dei cani nei confronti del loro amico e padrone.