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Annessi & Connessi
Per noi, i libri sono una faccenda personale. Benvenuto!
Postato da Legione il 17 Maggio 2015

http://annessieconnessi.net/una-notte-di-ordinaria-follia-a-filisdeo/

Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]

 

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April Rose – C. Bartoletti

Postato da Legione il 20 Marzo 2013

http://annessieconnessi.net/april-rose-c-bartoletti/

«Il campanello non funzionava, e allora ho fatto il giro da dietro, dove non ero mai stato, ma dove avevo visto dal bagno, c’era il giardino delle rose. Sono rimasto folgorato dalla bellezza del parco dietro la casa, immenso, verde, curatissimo, come si vedono nelle foto dei cottage inglesi. Rose su rose, tutte rosse, alcune selvatiche, altre non saprei, l’olezzo dei fiori era fortissimo, mi ha inebriato. Mi sono seduto su una panchina di marmo, ad osservare tutto questo e non ho notato quanto sono stato, so solo che il sole scendeva sempre più, alla fine era sfociato in un tramonto di sangue, mi ha riempito la vista, per un po’ ho visto solo rosso, e a malapena i contorni delle montagne a picco sul mare.»

April Rose, la memoria delle rose è il primo interessante romanzo di Clara Bartoletti e racconta le vicende di Tiziano, trentenne dal brutto carattere, costretto a lavorare sotto il suo autoritario padre. Tiziano viene incaricato dell’acquisto di una vecchia dimora fatiscente dalla sua bizzarra proprietaria, April, che detta condizioni particolarissime per il raggiungimento dell’accordo. Ben presto però l’incontro tra i due assume tratti sempre più surreali, scoprendo man mano l’interiorità di entrambi e il grande dramma che si nasconde nel passato di April.
La storia, una volta svelata (ma non vogliamo dare spoiler) potrebbe non essere delle più orginali nei suoi tratti salienti, eppure bisogna rendere onore al merito dell’autrice di aver dato un taglio del tutto inedito e dal sapore coinvolgente.
I personaggi costituiscono il fulcro della vicenda, la loro interiorità è espressa con chiarezza e verosimiglianza. E’ impossibile non trovare profondamente insopportabile Tiziano, così come non trovarsi incuriositi e partecipi dalla complessa figura di April.
Lo stile di scrittura è molto particolare, l’autrice sceglie di utilizzare un punto di vista che varia a seconda delle circostanze. In alcuni passaggi ci troviamo nella testa di Tiziano, in altri in quella di April, in altri ancora siamo collocati in posizione di una terza persona osservatrice. In questi ultimi passaggi spesso il narrato prende il posto del mostrato, rendendo l’immedesimazione un po’ più difficoltosa.
Questo cambio di prospettiva interrompe talvolta il crescendo emotivo della storia, ma l’attenzione generale all’interiorità dei personaggi è tale che nel complesso non risulta difficile calarsi in profondità nella storia.
Nel complesso quindi si tratta di un romanzo facile da leggere e da apprezzare, con qualche piccolo difetto non invalidante che un buon lavoro di editing può rimuovere senza problemi, che racconta una storia interessate con un taglio introspettivo originale e non banale.

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L’amore non muore mai – H. H. Mamani

Postato da Legione il 16 Marzo 2013

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L’amore non muore mai di Hernan Haurache Mamani è un romanzo d’amore tratto da una storia vera i cui protagonisti, vittime del razzismo imperante in Perù nei primi decenni del Novecento, si perdono di vista per lungo tempo prima di potersi infine rivedere.
Antón e Karen si innamorano nonostante le differenze che li vorrebbero separati: lui è un Indio povero ma ambizioso, lei una bianca ricca dai grandi ideali. Si conoscono grazie all’intraprendenza di Karen che lotterà per questo amore fino al giorno in cui, convinta che Antón sia morto per mano della sua famiglia, abbandonerà il Perù per non farvi più ritorno.
È una storia appassionata e tragica a cui ci si inchina con rispetto perché realmente vissuta da due persone che hanno dovuto affrontare l’ignoranza, la meschinità e l’ipocrisia di una società classista priva di scrupoli. Antón e Karen hanno continuato ad amarsi nonostante tutto e il messaggio che l’autore ci mostra attraverso la loro storia è che quando l’amore è sincero neanche la crudeltà umana può soffocarlo.
L’autore dichiara di aver scelto di scrivere in modo chiaro e semplice con l’obiettivo di raggiungere il maggior numero di persone, e se da un lato ammiro e rispetto questa decisione, dall’altro me ne rammarico perché personalmente non mi ha permesso di apprezzare il libro come avrei voluto.
Quello che avrebbe dovuto essere uno stile fruibile, ha portato l’autore a scelte discutibili sia in merito ai dialoghi, che ho sentito inverosimili e affettati, sia alle metafore spesso banali e poco incisive.
Mi è dispiaciuto non essere coinvolta maggiormente dalle vicende dei personaggi, non essere riuscita a calarmi nel loro ambiente, così diverso dal mio, e dopo un inizio promettente, essermi poi trascinata stancamente verso la fine.
A mio parere non si può giudicare il valore di una storia realmente vissuta che ha il merito di dar voce a tante ingiustizie tutt’oggi presenti nel mondo, ma credo che l’autore avrebbe potuto trasmetterne più efficacemente il messaggio se avesse scelto di raccontarlo sì in modo semplice e diretto, ma evitando la banalità dei luoghi comuni che, pur essendo compresi da tutti, riescono in realtà ad emozionare ben poche persone.

Recensione scritta da Kenny.

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Il corvo e lo scorpione – F. Civiletti

Postato da Legione il 12 Marzo 2013

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«[...] Mi immaginai la verde pianura che costeggia il Tamesis, affrescata con pennellate regolari del rosso delle uniformi romane, del giallo dei pennacchi e dell’argento che tingeva le armature di metallo segmentato e gli elmi che proteggevano le guance dei legionari fino al mento. Immaginai di vedere la daga sui fianchi sinistri, il gladio su quelli destri; le spade spagnole a doppia lama, i giavellotti piantati nel terreno in attesa dello scontro, i grandi scudi di pelle e di legno dipinti alla destra di ogni uomo, con le estremità di metallo appoggiate al suolo, e il dio Marte lanciatore del fulmine come effige, in attesa anch’esso di caricare il nemico.»

Un fantasy che attinge a piene mani sia dal romanzo storico che dalla letteratura d’azione, in un mix inconsueto e dal gusto piacevole. Il romanzo di esordio di Francesca Civiletti, Il corvo e lo scorpione, è sicuramente un’opera interessante e ben congeniata, che riesce ad interessare ed appassionare il lettore in una trama decisamente non banale.
Si parte con le battute del più classico dei fantasy, questa volta ambientato nell’Irlanda druidica ai tempi dell’Impero Romano, poco dopo Cristo. Si sente qualche influenza della Avalon più celebre, ma ben presto i tratti diventano molto personali, delineando i primi accenni di una storia dall’ampio respiro, che porterà la protagonista Rowan a viaggiare molto, moltissimo, e ad incontrare altri personaggi dalle doti straordinarie.
Un romanzo che affonda le radici nella cultura mitologica e magica dell’Irlanda, con il suo grande e unico fascino, ma che comprende aspetti religiosi e culturali della Roma antica e anche del Protocristianesimo.

L’aspetto che traspare di più alla lettura attenta è che l’autrice dimostra perfetta padronanza dell’argomento trattato. Sia che si tratti di accenni storici, di magia druidica, di equipaggiamento di un legionario romano o della descrizione della geografia del territorio irlandese, il contenuto riesce ad essere sempre chiaro e credibile e efficace nell’obiettivo principe della letteratura di genere, far calare il lettore in una realtà alternativa.

Questo romanzo di esordio soffre di alcuni dei problemi più tipici delle opere prime, ma in questo caso nulla che non possa essere risolto con un buon lavoro di editing: qualche svista di punteggiatura, la costruzione un po’ ardita di alcuni periodi e alcune sequenze non proprio chiarissime (i.e. un braccio rotto del quale perdiamo ben presto le tracce e un cane che appare sempre e solo quando serve) sono aspetti che non danneggiano il piacere complessivo della lettura e della fruizione della storia.

Una storia molto vasta, alla quale probabilmente avrebbe giovato un formato aderente alla moda odierna della fantasy: la suddivisione in più libri. In particolare la prima parte del romanzo risulta un po’ lenta e, sebbene ricchissima di avvenimenti, viene dato poco risalto ad alcuni aspetti dal notevole potenziale interesse anche per evitare di allungare ulteriormente la storia.

La giovane Rowan fin dalle prime pagine risulta una creatura prescelta e privilegiata dalle sue origini. Viene quindi a crearsi una sorta di mito vivente che si destreggia bene con la magia quanto con la spada, che vede benissimo al buio, agile e veloce come un felino, bellissima (ovviamente) e laddove i suoi studi non la soccorrono (rari casi) è in grado di attirare su di sè il fato in forma di consederevoli deus ex machina.
Insomma, forse l’unico personaggio un po’ sopra le righe è la stessa protagonista, mentre i personaggi secondari sono delineati da un’aura di normalità che li rende molto umani e piacevoli.

Nonostante qualche piccola scelta discutibile dalle quali nemmeno lo scrittore più navigato può dirsi davvero libero, l’opera nel suo complesso è piacevole ed appassionante e costituisce una bella esperienza evocativa per gli amanti dell’azione e del fantasy originale.

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Cavie – C. Palahniuk

Postato da Legione il 8 Marzo 2013

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Prendi un gruppo di aspiranti (e sedicenti) scrittori e chiudili in un ex cinema per tre mesi. Dai loro riscaldamento, acqua e cibo liofilizzato in abbondanza, una camera piccola ma decorosa per ciascuno, lavatrice e toilette funzionanti. Rinchiudili privandoli di stimoli esterni abbastanza a lungo e vedrai come l’istinto dell’uomo verrà a galla e la necessità atavica del dramma prenderà il sopravvento.

Questo “romanzo di storie” di Chuck Palahniuk, Cavie, viene considerato dai più un libro disgustoso. Beh, è impossibile argomentare contro questa asserzione: è vero, quello che viene narrato in queste pagine va ben oltre ciò che una persona grossomodo mentalmente equilibrata potrebbe mai immaginare, anche cercando di immaginare il peggio.
Ho letto romanzi horror che descrivono con dovizia di dettagli le peggiori crudeltà, eppure questo romanzo è riuscito ad alzare di qualche tacca la mia personale soglia di sopportazione allo schifo.
Non è però il disgusto fine a sè stesso l’oggetto di questo romanzo, anzi. A ben vedere, potrei chiedermi come mai io sia riuscita ad arrivare al fondo delle 400 e più pagine senza nemmeno un filo di nausea, nonostante tutto.
Al solito Palahniuk ci getta in un tunnel (o in un cinema) e ci racconta delle storie alienanti, che sembrano troppo assurde per non essere vere, e al di sotto della superficie (un po’ viscida a causa del grasso disciolto) si intravede un disegno, un messaggio, grande e unico, un modo di vedere la realtà che una volta conosciuto non si può smettere di vederlo ancora e ancora, ovunque.
L’autore tratta fin dal suo Fight Club l’atavica tendenza dell’uomo all’autodistruzione, senza la quale probabilmente non avrebbe modo di vivere. Senza il dramma, il rischio della sua stessa fine, non avrebbe nemmeno senso esistere.
Un romanzo crudissimo, che somministra oscenità inaspettate come snocciolasse scene già viste a cui tutti siamo già assuefatti, e che dimostra quanto labile sia il confine tra salute e follia, morale e immorale, vittima e carnefice.
Singolarissimo il rapporto con i personaggi: il narratore è posizionato in una prima persona plurale, che colloca il lettore in una posizione centrale rispetto alle vicende, eppure, la mancanza di un “io”, fa sì che sia l’unico vero osservatore interno e super partes della storia (l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo).

Un romanzo consigliato solo ai lettori dallo stomaco forte e non troppo impressionabili: il rischio è quello di lasciarsi sopraffarre dal senso di disgusto di superficie senza poter apprezzare il contenuto e il messaggio.

Recensione scritta da Sayu

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An education – regia di L. Scherfig

Postato da Legione il 4 Marzo 2013

Anni ’60. Jenny ha 16 anni ed è oggetto del sogno ambizioso dei suoi genitori di entrare ad Oxford. Ama la Francia e sognare ad occhi aperti, vorrebbe concedersi qualche divertimento ma deve concentrarsi sullo studio e tutto le è precluso. Finchè un giorno incontra David, bello, maturo e sicuro di sè, che la affascina e le fa conoscere un mondo che aveva solo immaginato, ma a caro prezzo.

An education
è un film del 2009 di Lone Scherfig e sceneggiato da Nick Hornby. Nonostante il nostro amore dichiarato per Hornby, siamo costretti ad ammettere che questo film non è esattamente un successone. Forse il piglio graffiante e caustico dell’autore rende meglio sulla carta che non in un film (ma anche no, visto Alta Fedeltà) o forse è semplicemente un’opera non proprio riuscita (in fondo può capitare anche ai migliori). La storia è interessante ma la dinamica è lenta, lentissima… con una sensazione di fondo opprimente e deprimente che dopo il primo terzo del film diventa dominante, per arrivare al suo culmine nel finale.
C’è un sapore non ben chiaro in questa sceneggiatura, un sapore che non siamo soliti riconoscere nell’Hornby più classico. Sembra che, in fondo a tutto, ci sia una specie di moraletta di stampo ormai anacronistico e buonista (studia e fai la brava perchè le tentazioni sono ovunque e si presenteranno sottoforma di un galante giovanotto poco di buono che da te vuole solo una cosa) che delude un po’.
L’attrice protagonista, Carey Mulligan, è senza dubbio molto brava in una parte difficile, un viso pulito acqua e sapone ma un’espressività profonda ed adulta che ben si attaglia al ruolo. Il belloccio di turno, Peter Sarsgaard, invece, ci è risultato assolutamente fastidioso, ben al di là del sentimento di fascino ammaliante che invece avrebbe dovuto suscitare. Se per buona parte del film è, diciamo, tollerabile, nella parte finale del film è un crescendo di indisponenza.
Insomma, un film che si lascia senza dubbio guardare, giusto per la curiosità di vedere come va a finire e qualche moto di spirito per un personaggio-macchietta (un ottimo Alfred Molina nel ruolo del padre di Jenny, bigotto soffocante e generalmente ignorante), ma che una volta giunto a termine lascia abbastanza indifferenti.

Notte buia, niente stelle – S. King

Postato da Legione il 28 Febbraio 2013

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«Scrivere male non è solo questione di cattiva sintassi o scarso spirito di osservazione: si scrive male quando ci si rifiuta di raccontare storie su quel che la gente fa realmente. Quando, mi viene da dire, si rifugge questo dato di realtà: capita che l’assassino aiuti una vecchietta ad attraversare la strada.»

Un anno particolarmente nefasto all’insegna di una serie di scelte sbagliate; una tremenda disavventura fronteggiata da una tranquilla scrittrice di romanzi gialli da salotto; un curioso incontro tra un malato terminale e un bizzarro venditore di “giuste estensioni”; la scoperta di una moglie del piccolo segretuccio del marito.
Questa raccolta di quattro racconti, Notte buia, niente stelle, di Stephen King, certamente entra a buon titolo nella produzione del Re del brivido.
A differenza delle grandi raccolte degli anni giovanili di King (primo tra tutti il celebre “Stagioni diverse”), in questi racconti più che in altri si individua saltuariamente il tentativo dell’autore di “fare sé stesso”, inserendo elementi tipici del suo stile e accenti horror anche laddove magari non sarebbe necessario.
A parte questo però, il libro costituisce una lettura assolutamente godibile. I racconti sono legati da un filo comune, che viene poi chiarito nella postilla finale dell’autore. Le cose brutte succedono e basta, per parafrasare un noto modo di dire americano, e di solito le cose molto brutte possono capitare anche alle persone più normali. E’ questo che King ci racconta: il comportamento, le risorse (o la mancanza delle stesse) che l’uomo e la donna media possono tirare fuori in circostanze eccezionali.
I veri elementi distintivi della produzione kinghiana ci sono tutti, al di là del semplice gusto dell’horror: sopra tutto sono i personaggi ad essere degni di nota, come sempre. Personaggi profondi e complessi, con voci originali e una introspezione degna di un romanzo vero e proprio. Ma sono le storie di questi racconti ad essere a modo loro terribili e indimenticabili. Lasciano dietro di loro una scia di verosimiglianza che non può lasciare indifferente nemmeno il più approssimativo dei lettori.
Una lettura consigliata, ovviamente: come potremmo dire qualcosa di diverso? ;-)

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Nel bosco di Aus – C. Palazzolo

Postato da Legione il 24 Febbraio 2013

Carla è un’insegnante che vive in un piccolo paese del sud Italia. E’ una donna come tante, che si divide tra lavoro, marito mondano, figli pestiferi e una grande casa da mandare avanti: una bella casa affacciata sul sinistro e affascinante bosco di Aus. Ben presto Carla vi ambienterà numerosi incubi notturni, in una spirale di stranezze che la porteranno al margine della follia, arrivando a rischiare ben oltre la sola salute mentale.

Nel bosco di Aus di Chiara Palazzolo probabilmente non brilla per innovazione, il concept su cui si fonda la trama è piuttosto banale, già letto in molti libri del genere. Senza dubbio però, il pregio e il difetto della Palazzolo è il suo stile, così frammentario ed in apparenza istintivo, che permette un approccio del tutto nuovo all’argomento. Nonostante la terza persona, l’autrice riesce a farne un uso talmente particolare che spesso arriva ad equivalere ad una prima persona, consentendo talvolta invece un certo punto di vista distaccato.
Dicevamo che il suo stile costituisce anche un difetto, perchè questo modo un po’ irruente di descrivere i fatti spesso e volentieri lascia spaesato il lettore, in particolare durante le scene più concitate, che diventano un po’ confuse.
Abbiamo trascorso ore interessanti nella lettura di questo romanzo, che per due terzi di fatto getta le basi al terzo finale, durante il quale possiamo tirare le fila della storia.
L’unica caduta di stile la troviamo nelle scene finali, che sembrano uscite da un anime di basso profilo, che invece di mantenere alta a tensione nel momento di climax, lo fanno cadere del ridicolo.
Tutto sommato un libro gradevole, blandamente horror, che vira quasi al triller paranormale, che si legge velocemente e che riesce a mantenere l’interesse del lettore anche grazie al suo stile così particolare
Consigliato.

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Accabadora – M. Murgia

Postato da Legione il 20 Febbraio 2013

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Maria è nata due volte. Una volta dalla sua madre naturale, che l’ha partorita per ultima in una famiglia di sole donne e senza padre, e una volta da Bonaria Urrai, una donna rimasta vedova senza essere mai stata sposata. Bonaria cresce Maria come una figlia, colmando con questa unione i reciproci vuoti dell’esistenza.
Bonaria è però anche l’accabadora del paese, l’ultima madre, la pietosa figura che mette fine alle sofferenze di chi non riesce a lasciare il mondo dei vivi.

Con un tratto delicato ma preciso, Michela Murgia racconta una storia dal sapore antico nato in terra sarda, Accabadora.
Lo stile è misurato, ogni parola selezionata con cura, pesando con attenzione i regionalismi, la struttura delle frasi, le espressioni del discorso diretto, avvicinando il lettore al territorio e all’epoca narrata. Proprio come le genti di cui tratta, l’autrice si esprime con riserbo, lasciando poco spazio agli slanci poetici, senza tralasciarli del tutto ma facendoli trasparire nella scelta delle figure retoriche e nelle similitudini.

Un romanzo sicuramente molto noto, e a buon titolo, che disegna con maestria una storia semplice ed efficace, che lascia buoni spunti di riflessione.

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