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Mucchio d’ossa – S. King
Lessi questo libro tanti anni fa e da allora ne ho sempre conservato un ricordo da definizione da copertina: una bellissima e tragica storia d’amore. Ricordavo con particolare chiarezza gli aspetti più struggenti dell’amore tragicamente interrotto del protagonista Mike Noonan nei confronti della sua defunta consorte Johanna, incastonato in un contesto più o meno nebuloso di fantasmi e presenze incorporee.
Qualche giorno fa ne parlavo con una collega, che aveva apprezzato il libro ma nel quale aveva rilevato particolarmente l’aspetto carnale della storia, aspetto che io non ricordavo affatto.
Mossa quindi dalla volontà di riscoprire un libro in ogni caso notevole, ho ripreso in mano Mucchio d’ossa, probabilmente uno dei migliori romanzi nel nostro sempre mitico Re del Brivido.
Il risultato di questa seconda lettura è stato interessante ed ha confermato quello che molti esperti hanno spesso sostenuto: un bel libro contiene principalmente quello che il lettore ci vuole vedere.
La rilettura ha messo in evidenza al mio occhio più maturo la trama, che è molto intricata e per niente semplice da seguire (chi non si è mai perso attraverso gli alberi genealogici?) e ha fatto risaltare tutti gli aspetti torbidi della vicenda: le presenze incorporee (o quasi), la potenza dei ricordi, la vendetta, l’istinto e, naturale e sempre presente nei libri di King, la crudeltà umana portata al parossismo e incarnazione di ciò che c’è di Male in ciascuno.
L’aspetto romantico è presente, sì, ma quello che più mi ha coinvolto questa volta è stato l’amore praticamente paterno che il protagonista Mike riversa sulla piccola Kyra, questo amore, esatto fulcro non dichiarato dell’intera vicenda.
E’ vero, i bei libri comunicano con chi li ha in mano, ma al contempo diventano specchi che permettono al lettore di vedervi riflessi i propri pensieri e sentimenti, dandogli forma e sostanza, anche se attorno alle circonvoluzioni di lettere e punteggiatura.
Questo libro esce un po’ dal seminato horror di King, ma non di molto e comunque non lo lascia rimpiangere: unisce abilmente amore e morte, coinvolgendo il lettore in spirali sempre più strette di ansia ed apprensione. La parte finale è comunque estremamente Kinghiana, forse addirittura in eccesso, stonando un po’ nei confronti di un contesto così abilmente cesellato, ma glielo si può perdonare: dopo 600 pagine di romanzo, il finale col botto è più che gradito.
In conclusione, Mucchio d’ossa è e resta uno dei prodotti migliori usciti dalla mente maleducata di King, complesso e ponderoso ma toccante e coinvolgente come pochi altri. Da leggere assolutamente.
Recensione scritta da Sayu
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Il miglio verde – S. King
E’ inutile farne mistero: con noi Stephen King sfonda sempre una porta aperta. Solo lui ci è in grado di farci divorare più di 600 pagine in meno di una settimana, farle scorrere come acqua, una dietro l’altra, senza percepire affaticamento nella lettura o noia (o fame o sonno, se è per questo). Il Miglio Verde non è altro che una grande conferma. Un grande classico moderno, un successo datato 1996 ma appuntamento assolutamente da non mancare per chiunque voglia considerarsi un appassionato Kinghiano ma anche per chi desidera una storia delicata e cruda allo stesso tempo, narrata con maestria incomparabile.
La storia è abbastanza nota, anche grazie al pregevole film del 1999 diretto da Frank Darabont con Tom Hanks nei panni del protagonista e narratore.
La storia narra di un periodo piuttosto breve, qualche mese, all’interno del braccio della morte di un penitenziario del Maine negli anni ’20 ed in particolare la vicenda degli ultimi mesi di vita di una creatura tanto straordinaria quanto fragile, che, proprio a causa della sua incapacità di difendersi e del generale razzismo imperante dell’epoca, è stato incompreso nelle sue azioni ed è stato condannato alla sedia elettrica.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, Il Miglio Verde non è mai angosciante o claustrofobico, permeato dal senso di morte incombente. Attraverso il magistrale stile del Re, il lettore non può che percepire una calma ed una pacatezza che dà a tutta la narrazione una connotazione sognante, onirica, favolistica, rendendo anche i dettagli e le scene più incredibili pazzescamente possibili.
Come l’autore ci ha ben abituati, il fiore all’occhiello di questo libro sono i personaggi. Vividi, definiti, precisi fino nel millimetro, vivi in ogni più piccolo difetto e mania. Con dei personaggi così e la ben nota prosa di King non è possibile perdersi in una lettura di questo genere.
La storia è appassionante, il desiderio di scoprire il finale è pressante, sebbene il lettore si accorgerà, esattamente come i protagonisti, che un lieto fine non è possibile.
Ma in fondo un lieto fine a questo romanzo così particolare sarebbe veramente un lieto fine?
Al Fedele Lettore l’ardua sentenza.
Colorado Kid – S.King
Cosa rende una storia, una storia adatta per essere raccontata ad un pubblico? Beh, una serie di eventi, che si succedono in modo sequenziale, informazioni che vengono fornite mano mano, il dipanarsi di uno scenario, fino alla conclusione nel quale vengono spiegate tutte le questioni aperte nella narrazione e quindi concluse con una serie di risposte.
Questo piccolo volumetto di King si incentra proprio su questo principio, narrandoci una storia e continuando a ripeterci che la storia in realtà non c’è, in quanto mancano gran parte degli elementi sopracitati. Benissimo. Peccato che, esattamente come promesso, non essendoci una storia, la narrazione non ci porta da nessuna parte. Il libro non è quindi, come di solito accade, il veicolo per raccontare una serie di eventi e la loro conclusione, bensì si tratta solo di uno spaccato di vita isolana (nel Maine, ne dubitavate, Fedeli Lettori?) che non inizia e non finisce in nessun luogo, raccontando un episodio che ha tormentato i due giornalisti/narratori per 25 anni e che passano la patata bollente (o per meglio dire indigesta) alla giovane stagista che li sta ascoltando.
King dice nella postfazione, questo libro o si ama o si odia, eppure non ci sentiamo di estremizzare la nostra posizione. Non ne abbiamo fatto follie ma non ci ha certo disgustati, in fondo non ha fatto altro che ripeterci che la soluzione al mistero di Kolorado Kid non esiste…
Una cosa solo ci infastidisce: la copertina. Per le leggi del marketing si sa che una bella donna in copertina attira l’attenzione, anche se è disegnata. La didascalia lancia l’esca: riuscirà a risolvere l’engima? Questo cosa lascia intendere? Che il libro contiene un mistero e che ci sarà qualcuno che tenterà di risolverlo. E non è esattamente così. Insomma, non crediamo di avervi spoilerato troppo, piuttosto vi abbiamo preparati. In sè poi, il mistero è affascinante, e per niente kinghiano. Forse proprio per questo è ancora più spiazzante: il Re ci ha abituati a finali col botto e spiegazioni al limite del surreale (a volte il limite è stato ampiamente superato), mentre questa volta ci espone dei fatti e delle congetture e li lascia al lettore, eredi del mistero come la giovane stagista, per essere cogitati e digeriti e, chissà, magari quella domanda in copertina si riferiva proprio a noi.
The Dome – S. King
Spesso i romanzi più geniali si generano da una domanda che, per quanto assurda, innescano una lunga processione di considerazioni e riflessioni che portano alla creazione di una storia complessa ed organica.
Questo libro, ultimo romanzo della prolifica penna del Re, è un tipico esempio.
Che cosa succederebbe se una tranquilla cittadina del Maine venisse all’improvviso messa sotto vetro da un’impenetrabile quanto inverosimile Cupola?
Da questo semplice evento scaturisce la storia di Chester’s Mill, una storia drammatica e verosimile di come un’intera cittadina possa trasformarsi quando le vie di comunicazione con l’esterno si interrompono e la sola legge che conta è quella che viene fatta rispettare dal più forte di turno, senza possibilità di appello.
Ecco che quindi il romanzo da fantascientifico/horror/assurdo si trasforma in sociologico: i deboli soccombono e torna in vigore la legge di natura, nella quale chi riesce a sopravvivere è colui che riesce a portare la maggior parte dei suoi simili dalla propria parte. Indipendentemente da chi ne trarrà poi il beneficio finale.
La trama di questo libro, almeno nella prima metà, richiama alla mente del Fedele Lettore un altro grande romanzo kinghiano, “L’ombra dello scorpione”, per i toni catastrofistici (qui una cupola su una cittadina, là un’epidemia di un virus che riduceva la popolazione degli Stati Uniti e forse del mondo intero a poche migliaia di persone), per i volumi decisamente ponderosi in termini di pagine ma soprattutto per il carattere corale della narrazione. In entrambi i romanzi i protagonisti risultano un manipolo di uomini e donne più che normali, che utilizzano l’ingegno ed il coraggio per cavarsela e rendere giustizia alle loro vite e a quelli che la vita l’hanno persa.
Purtroppo le similitudini con quel capolavoro si fermano qui. Infatti The dome non si può certo definire un brutto libro, ma ci ha lasciati perplessi. Un po’ crediamo sia dovuto alla china che ha preso King da qualche anno a questa parte. I suoi libri prodotti in questo ultimo periodo differiscono abissalmente da quelli scritti in età più giovanile, anche se è difficile capire bene in cosa consti questa differenza. Magari un giorno ne parleremo più diffusamente.
Un po’, almeno a parere nostro, il problema è insito nella spiegazione che ad un certo punto l’autore dà di questa cupola. Una giustificazione era d’obbligo, e poteva essere di varia natura, volendolo. Ha preferito quella forse più semplice, che non vi diremo quale sia, che non ci ha soddisfatti appieno.
Certo è che la penna dello scrittore c’è e si sente ad ogni pagina: pur priva del mordente de “L’ombra dello scorpione”, riesce a trascinarti fino in fondo alle sue 1036 pagine come se niente fosse, arrivando al finale trascinando il lettore in un vero stato di ansia.
King, è noto, ama i lieto fine, ma ad una cinquantina di pagine dalla fine viene davvero da chiedersi se questa cupola si leverà mai, se veramente tutte queste persone (i personaggi che abbiamo imparato ad amare ed odiare, e non mancano nè gli uni nè gli altri) perderanno le loro piccole vite a causa di questa “cosa” inspiegabile…
Non vogliamo dirvi altro.
Impossibile non menzionare la ricchezza del parco personaggi, specialmente quelli negativi, che assumono uno spessore così realistico da suscitare moti di odio spontaneo nel lettore. Per contro, abbiamo notato un po’ di debolezza per i “buoni”, che in linea di massima sono buoni senza ombre e si riconoscono come tali fin dalle prime pagine. I cattivi sono stati disegnati con molta più cura, ecco, e se ne potrebbe parlare per ore intere.
Ma non lo faremo: le vostre ore, Fedeli Lettori, saranno impiegate meglio che non nella lettura di questa recensione, ovvero leggere direttamente il libro originale il prima possibile.
Godetevelo.
La Bambina Che Amava Tom Gordon – S. King
Questo è forse uno dei romanzi meno noti del Re del Brivido, l’abbiamo scelto perchè era uno dei pochi rimasti sullo scaffale alla lettere K che non avevamo ancora letto ed eravamo incuriositi. La trama è molto semplice: una bambina si perde nel bosco. Basterebbe da sola a suscitare paure ataviche come quella del buio e del babau nell’armadio, e King lo sa bene: da sempre sfrutta le nostre paure più antiche per allestire i suoi romanzi.
La storia si dipana in stretto ordine cronologico, seguendo le vicende della povera Trisha che, per una leggerezza, si trova a girovagare da sola, speduta e spaventata nei boschi che vanno dal Maine fino al Canada. Altra caratteristica dei romanzi Kinghiani, la commistione tra l’orrore soprannaturale e quello naturale e reale: come se non bastassero le zanzare, le vespe, la fame, la sete ed il freddo, una presenza inquietante la segue, e sembra anche grottescamente intelligente.
La bambina sarebbe finita in breve tempo, se non riuscisse a trarre la forza di andare avanti ispirandosi al suo idolo: Tom Gordon, appunto.
Niente da dire sulla trama, i brividi li mette davvero, il desiderio di vedere come riuscirà a tirarsi fuori dai guai la piccola Trish manda avanti il lettore divorando pagina per pagina questo volumetto certo non ponderoso, almeno secondo i paramentri a cui ci ha abituati l’autore.
Qualche piccola nota stonata, però, risuona, e la potremmo collocare nello stile di scrittura. A volte il narratore onniscente insinua pensieri che forse esulano troppo da una mente infantile di una ragazzina di una decina d’anni, creando una dissonanza. In altri romanzi non siamo incorsi spesso in questo tipo di licenza stilistica, quindi in questo caso la cosa è risaltata di più.
Tutto sommato comunque resta un ottimo libro da leggere tutto d’un fiato.
Dolores Claiborne – S. King
Così come abbiamo letto Rose Madder avendo la sensazione di averlo già letto quando invece non era vero, abbiamo letto Dolores Claiborne con la sensazione non averlo letto ed invece ci sbagliavamo. Ma in entrambi i casi il tempo è stato ben speso.
Dolores Claiborne è un romanzo horror in senso prosaico, ovvero improntato non già sull’aspetto soprannaturale del Male, uno dei temi da sempre più apprezzati ed usati da King, ma sul male che risiede in ognuno di noi. Nella vita quotidiana di molti, il male ha sembianze umanissime e fin troppo famigliari, al punto da diventarne il paradigma. In questo romanzo, scritto con una cura linguistica unica, abbiamo Dolores che ci narra la sua vita da antieroina. Sposata con un uomo gretto, ignorante e violento, cresce i suoi tre figli nella speranza di poter preparare loro un avvenire migliore, lavora fino ai suoi limiti per una donna che anche lei ha avuto i suoi momenti oscuri e che la tormenta in un rapporto di amore ed odio. Ma quando questo equilibrio precario si rompe drammaticamente, Dolores diventa una madre-lupa, arrivando al punto di compiere passi irreparabili per proteggere la sua famiglia, a costo anche di perderla.
Uno dei romanzi migliori e più toccanti di King vecchia maniera, un libro che diventa pietra miliare della sua storia narrativa.
Il libro è diventato anche un film, “L’ultima eclisse”, con una pregevolissima Kathy Bates, già Annie Wilkies premio Oscar in “Misery non deve morire“.
Rose Madder – S. King
Abbiamo rispolverato questo romanzo, certamente non dei più recenti, che ci pareva di aver letto in passato ma che non ricordavamo per nulla.
In effetti qualcosa ci era sfuggito, perchè rischiavamo di dare per letto un romanzo per il quale valeva certamente la pena di impiegare il tempo.
Rosie, una giovane moglie piegata da un marito intrattabile, sadico e violento, dopo 14 anni riesce a svegliarsi dal suo torpore e lascia casa e consorte.
Inizia così un lungo e difficile percorso nel quale cerca di crearsi una nuova esistenza ed un futuro, mentre Norman, il marito abbandonato, scende sempre di più in lunghe spirali di follia per cercare la sua vendetta. (Qui la trama completa del romanzo, molto molto spoiler)
Come a volte accade nei romanzi di King, questo è un romanzo horror, ma non fino ai punti che ci si potrebbe aspettare. L’aspetto soprannaturale è importante, cruciale, senza dubbio, ma il vero orrore, il vero incubo che King riesce ogni volta a somministrare, non è costituito da questo. Il vero terrore è l’abisso delle menti umani malate, il sadismo, la vessazione, la prevaricazione, i modi sempre nuovi in cui un uomo può ferire e far soffrire. La dimostrazione di quello che l’uomo in quanto tale è in grado di partorire, il mostro aberrante che è in grado di diventare.
Questo romanzo è anche una fiaba simbolica che disegna in teneri tratti la rinascita di una donna che dapprincipio non possedeva nemmeno una descrizione fisica, per poi diventare bellissima, con doti insospettate, in grado di amare e di farsi amare da un uomo per bene. In grado di difendere quello che con dolore ha conquistato, in grado di vivere, più semplicemente, la vita che si merita. Una specie di dolce riscatto per tutto quello che ha dovuto patire. Questa è una caratteristica abbastanza comune nei romanzi di King, una specie di leitmotiv che addolcisce certi tratti di crudezza: ci comunica che nella sua ottica il Male a senso unico, immotivato, è raro, e che se avviene per contro ci sarà una riscossa, un lieto fine, la vittoria del Bene, per farci dormire sonni tranquilli dopo tanto orrore.
Infine, carino il gioco di parole con il titolo: il nome si riferisce ad un personaggio ben preciso nella trama e in inglese è il nome proprio di un colore, il “rosa di robbia”, ma vogliamo notare l’assonanza con la parola “madness”, pazzia? Nulla è per caso, Fedele Lettore.
Duma Key – S. King
Neanche l’avessimo scelto di proposito, abbiamo appena finito di leggere “Duma Key”, uno dei più recenti romanzi, forse l’ultimo romanzo, sfornato da Il Re. E’ singolare come sia stato letto adesso, senza sospettare l’assonanza con il primo racconto di “Pochi inutili nascondigli” di Faletti, il quale assona con “La Torre Nera” di nuovo di King. E’ un curioso risonare, qua dentro…
Comunque, ennesima riprova della palese superiorità tecnica e contenutistica di King, una storia in apparenza semplice, quasi banale, estremamente lineare, ma sepolta in *tanto*: affetti, ricordi, sensazioni, amicizia, confusioni, vita vecchia e vita nuova, incubi, tratti di matita, dolori e siparietti comici, come solo Lui sa fare così bene, intrecciando tutti i fili fino ad una conclusione da fiato sospeso, in un crescendo dal quale è impossibile staccarsi prima di aver finito.
Un romanzo alla King nella versione moderna, che molto si distingue da quella antica, ricca di quello smalto di lucente e crudelissima creatività giovanile, ma che ancora sa affascinare, ti sa portare laggiù dove ci sono le cose peggiori, dove le ombre hanno messo i denti.