Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]
Archivio del 2013
La bussola d’oro – P. Pullman
Senza dubbio uno dei più grandi classici della fantascienza per ragazzi, La bussola d’oro di Philip Pullman appartiene a quel tipo di romanzo per ragazzi vecchio stile, ma non per questo stantìo o spiacevole, con i quali sono stati svezzati i moderni lettori.
Primo episodio della trilogia Queste oscure materie, Pullman ci presenta un mondo per alcuni aspetti simile al nostro ma per altri estremamente diverso.
La giovane Lyra ed il suo daimon Pantalaimon si troveranno ad affrontare una grande avventura nel gelido Nord che si scoprirà di cruciale importanza per l’esistenza dell’intera dimensione.
Questo romanzo è entrato a buon titolo tra i best seller di genere: la narrazione è magistrale e esalta una storia originale che cattura e stupisce, come ogni romanzo fantasy dovrebbe fare. A leggerlo oggi è possibile trovare decine di riferimenti di opere più recenti che hanno attinto e preso ispirazione da La bussola d’oro.
I personaggi sono vividi e di grande spessore, mai banali o scontati: i buoni hanno le caratteristiche classiche del surrogato genitoriale, mentre gli antagonisti brillano per spietatezza e insensibilità. Anche la protagonista è meno perfetta di quanto a primo acchito si potrebbe immaginare.
Ad una analisi approfondita della trama è possibile trovare qualche difetto, in particolare vengono lasciate ampie zone di scarsa chiarezza sui punti cardine. Alcuni passaggi sono giustificati con elaborati ragionamenti filosofici estremamente difficili da seguire, altri aspetti vengono lasciati in sospeso, come se qualche sottointeso dovesse chiarire e rispondere a tutte le domande. Rimane quindi la sensazione di aver letto un’opera di grande potenza simbolica ma che non si è riusciti ad espugnare completamente, lasciando una diffusa sensazione di incertezza.
Queste considerazioni nulla tolgono comunque alla grande qualità di questo romanzo, che resta un’opera imprescindibile per i giovani e i meno giovani lettori amanti del genere.
La bussola d’oro. Queste oscure materie: 1
E anche il film: La Bussola D’Oro (Disco Singolo)
Il tempo è un bastardo – J. Egan
E’ complesso, quasi impossibile, scrivere un commento utile al romanzo premio Pulitzer 2011 di Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo.
Costruito attraverso una sequenza di racconti incentrati via via su personaggi legati tra loro, viene proposto uno spaccato di vite contrassegnate dalla celebrità, dalla fama e dalla ricchezza e di come le alterne fortune possono comportare fallimenti, rovine, malattie e disgrazie.
Disegnato con una struttura in cerchi concentrici, passando da un personaggio all’altro, viene delineato un arco narrativo circolare, concludendosi là dove il romanzo è iniziato, attraverso un percorso temporale saltabeccante, dal presente, al passato (anche remoto) dei personaggi, fino a qualche accenno del futuro.
L’intera opera evidenzia uno studio e una pianificazione straordinaria, dove nessun aspetto è lasciato al caso. Ciascun racconto è una unità atomica, chiarissimo e autoesplicativo, che potenzialmente può essere letto all’interno di qualunque sequenza con gli altri, eppure ciascun elemento costituisce un tassello nella costruzione di un quadro di amplissimo respiro: vengono via via chiariti punti ed aspetti rimasti aperti in altri racconti, vengono approfondite personalità e personaggi che sembravano marginali e che invece non lo sono.
Nonostante questa complessa struttura, questo romanzo è semplicissimo da leggere e da capire, al punto da essere del tutto disarmante. Lo stile è chiaro, linearissimo, semplice come solo i veri capolavori sanno essere.
Che conclusioni è possibile trarre dalla lettura di questo romanzo? Che ciascuno è protagonista della propria storia e che la nostra si lega indissolubilmente a quella degli altri; che la fortuna è solo un attimo, e che più è intensa più marcato sarà anche il successivo fallimento; che è vero che il tempo è un bastardo per la sua implacabile capacità di spianare, smussare, corrodere qualunque cosa e persona, anche quelle più robuste e in apparenza inossidabili. Ma nonostante questo, il tempo può costituire ancora una occasione, per chi saprà coglierla.
Un libro assolutamente consigliato, anche solo per il semplice piacere di leggere un romanzo innovativo e di grande qualità.
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Portland souvenir – C. Palahniuk
«L’intera città [...] soffre del “complesso del minidotato”. [...] Portland compensa le sue ridotte dimensioni facendo casino e dando fastidio.»
Un libro che è un punto di congiunzione tra la guida turistica, la raccolta di racconti e la biografia. In Portland souvenir, Chuck Palahniuk racconta la vita nascosta della sua città e ce la mostra attraverso gli occhi di ci ha vissuto una vita ne conosce pregi e segreti.
Portland ci viene presentata come una fucina ricca di paradossi e assurdità, di estremi, di sottointesi, di segreti di Pulcinella che conoscono tutti, almeno quelli meglio inseriti nei giochi d’ombra.
Ogni capitolo è dedicato ad un’area tematica, con consigli puntuali tipici della guida turistica, con tanto di indirizzi e numeri di telefono a cui fare riferimento. Le interviste e i personaggi mostrati danno ancora più concretezza alle descrizioni.
Ciascun capitolo è seguito da una “cartolina”, che come spiega l’autore, non proviene tanto da un luogo preciso ma da un momento particolare. Sono frammenti, episodi, provenienti dalla vita di Palahniuk, che danno un assaggio del suo passato e del sapore reale della città.
La conclusione che si può trarre dalla lettura di questo non-romanzo è, a nostro avviso, una sola: l’autore ha attinto a piene mani dalle esperienze e dall’anima della sua città per la realizzazione dei suoi romanzi. Dopo aver letto i suoi microracconti, romanzi come Fight Club ne risultano quasi sintesi ovvie. La realtà allucinata, drammatica, grottesca ed estrema che racconta sono come la prosecuzione del naturale andamento della vita di quella città.
O forse è il suo occhio che ha saputo catturare la realtà bizzarra celata sotto la superficie di una delle pacifiche cittadine del Northwest americano.
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April Rose – C. Bartoletti
«Il campanello non funzionava, e allora ho fatto il giro da dietro, dove non ero mai stato, ma dove avevo visto dal bagno, c’era il giardino delle rose. Sono rimasto folgorato dalla bellezza del parco dietro la casa, immenso, verde, curatissimo, come si vedono nelle foto dei cottage inglesi. Rose su rose, tutte rosse, alcune selvatiche, altre non saprei, l’olezzo dei fiori era fortissimo, mi ha inebriato. Mi sono seduto su una panchina di marmo, ad osservare tutto questo e non ho notato quanto sono stato, so solo che il sole scendeva sempre più, alla fine era sfociato in un tramonto di sangue, mi ha riempito la vista, per un po’ ho visto solo rosso, e a malapena i contorni delle montagne a picco sul mare.»
April Rose, la memoria delle rose è il primo interessante romanzo di Clara Bartoletti e racconta le vicende di Tiziano, trentenne dal brutto carattere, costretto a lavorare sotto il suo autoritario padre. Tiziano viene incaricato dell’acquisto di una vecchia dimora fatiscente dalla sua bizzarra proprietaria, April, che detta condizioni particolarissime per il raggiungimento dell’accordo. Ben presto però l’incontro tra i due assume tratti sempre più surreali, scoprendo man mano l’interiorità di entrambi e il grande dramma che si nasconde nel passato di April.
La storia, una volta svelata (ma non vogliamo dare spoiler) potrebbe non essere delle più orginali nei suoi tratti salienti, eppure bisogna rendere onore al merito dell’autrice di aver dato un taglio del tutto inedito e dal sapore coinvolgente.
I personaggi costituiscono il fulcro della vicenda, la loro interiorità è espressa con chiarezza e verosimiglianza. E’ impossibile non trovare profondamente insopportabile Tiziano, così come non trovarsi incuriositi e partecipi dalla complessa figura di April.
Lo stile di scrittura è molto particolare, l’autrice sceglie di utilizzare un punto di vista che varia a seconda delle circostanze. In alcuni passaggi ci troviamo nella testa di Tiziano, in altri in quella di April, in altri ancora siamo collocati in posizione di una terza persona osservatrice. In questi ultimi passaggi spesso il narrato prende il posto del mostrato, rendendo l’immedesimazione un po’ più difficoltosa.
Questo cambio di prospettiva interrompe talvolta il crescendo emotivo della storia, ma l’attenzione generale all’interiorità dei personaggi è tale che nel complesso non risulta difficile calarsi in profondità nella storia.
Nel complesso quindi si tratta di un romanzo facile da leggere e da apprezzare, con qualche piccolo difetto non invalidante che un buon lavoro di editing può rimuovere senza problemi, che racconta una storia interessate con un taglio introspettivo originale e non banale.
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L’amore non muore mai – H. H. Mamani
L’amore non muore mai di Hernan Haurache Mamani è un romanzo d’amore tratto da una storia vera i cui protagonisti, vittime del razzismo imperante in Perù nei primi decenni del Novecento, si perdono di vista per lungo tempo prima di potersi infine rivedere.
Antón e Karen si innamorano nonostante le differenze che li vorrebbero separati: lui è un Indio povero ma ambizioso, lei una bianca ricca dai grandi ideali. Si conoscono grazie all’intraprendenza di Karen che lotterà per questo amore fino al giorno in cui, convinta che Antón sia morto per mano della sua famiglia, abbandonerà il Perù per non farvi più ritorno.
È una storia appassionata e tragica a cui ci si inchina con rispetto perché realmente vissuta da due persone che hanno dovuto affrontare l’ignoranza, la meschinità e l’ipocrisia di una società classista priva di scrupoli. Antón e Karen hanno continuato ad amarsi nonostante tutto e il messaggio che l’autore ci mostra attraverso la loro storia è che quando l’amore è sincero neanche la crudeltà umana può soffocarlo.
L’autore dichiara di aver scelto di scrivere in modo chiaro e semplice con l’obiettivo di raggiungere il maggior numero di persone, e se da un lato ammiro e rispetto questa decisione, dall’altro me ne rammarico perché personalmente non mi ha permesso di apprezzare il libro come avrei voluto.
Quello che avrebbe dovuto essere uno stile fruibile, ha portato l’autore a scelte discutibili sia in merito ai dialoghi, che ho sentito inverosimili e affettati, sia alle metafore spesso banali e poco incisive.
Mi è dispiaciuto non essere coinvolta maggiormente dalle vicende dei personaggi, non essere riuscita a calarmi nel loro ambiente, così diverso dal mio, e dopo un inizio promettente, essermi poi trascinata stancamente verso la fine.
A mio parere non si può giudicare il valore di una storia realmente vissuta che ha il merito di dar voce a tante ingiustizie tutt’oggi presenti nel mondo, ma credo che l’autore avrebbe potuto trasmetterne più efficacemente il messaggio se avesse scelto di raccontarlo sì in modo semplice e diretto, ma evitando la banalità dei luoghi comuni che, pur essendo compresi da tutti, riescono in realtà ad emozionare ben poche persone.
Recensione scritta da Kenny.
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Il corvo e lo scorpione – F. Civiletti
«[...] Mi immaginai la verde pianura che costeggia il Tamesis, affrescata con pennellate regolari del rosso delle uniformi romane, del giallo dei pennacchi e dell’argento che tingeva le armature di metallo segmentato e gli elmi che proteggevano le guance dei legionari fino al mento. Immaginai di vedere la daga sui fianchi sinistri, il gladio su quelli destri; le spade spagnole a doppia lama, i giavellotti piantati nel terreno in attesa dello scontro, i grandi scudi di pelle e di legno dipinti alla destra di ogni uomo, con le estremità di metallo appoggiate al suolo, e il dio Marte lanciatore del fulmine come effige, in attesa anch’esso di caricare il nemico.»
Un fantasy che attinge a piene mani sia dal romanzo storico che dalla letteratura d’azione, in un mix inconsueto e dal gusto piacevole. Il romanzo di esordio di Francesca Civiletti, Il corvo e lo scorpione, è sicuramente un’opera interessante e ben congeniata, che riesce ad interessare ed appassionare il lettore in una trama decisamente non banale.
Si parte con le battute del più classico dei fantasy, questa volta ambientato nell’Irlanda druidica ai tempi dell’Impero Romano, poco dopo Cristo. Si sente qualche influenza della Avalon più celebre, ma ben presto i tratti diventano molto personali, delineando i primi accenni di una storia dall’ampio respiro, che porterà la protagonista Rowan a viaggiare molto, moltissimo, e ad incontrare altri personaggi dalle doti straordinarie.
Un romanzo che affonda le radici nella cultura mitologica e magica dell’Irlanda, con il suo grande e unico fascino, ma che comprende aspetti religiosi e culturali della Roma antica e anche del Protocristianesimo.
L’aspetto che traspare di più alla lettura attenta è che l’autrice dimostra perfetta padronanza dell’argomento trattato. Sia che si tratti di accenni storici, di magia druidica, di equipaggiamento di un legionario romano o della descrizione della geografia del territorio irlandese, il contenuto riesce ad essere sempre chiaro e credibile e efficace nell’obiettivo principe della letteratura di genere, far calare il lettore in una realtà alternativa.
Questo romanzo di esordio soffre di alcuni dei problemi più tipici delle opere prime, ma in questo caso nulla che non possa essere risolto con un buon lavoro di editing: qualche svista di punteggiatura, la costruzione un po’ ardita di alcuni periodi e alcune sequenze non proprio chiarissime (i.e. un braccio rotto del quale perdiamo ben presto le tracce e un cane che appare sempre e solo quando serve) sono aspetti che non danneggiano il piacere complessivo della lettura e della fruizione della storia.
Una storia molto vasta, alla quale probabilmente avrebbe giovato un formato aderente alla moda odierna della fantasy: la suddivisione in più libri. In particolare la prima parte del romanzo risulta un po’ lenta e, sebbene ricchissima di avvenimenti, viene dato poco risalto ad alcuni aspetti dal notevole potenziale interesse anche per evitare di allungare ulteriormente la storia.
La giovane Rowan fin dalle prime pagine risulta una creatura prescelta e privilegiata dalle sue origini. Viene quindi a crearsi una sorta di mito vivente che si destreggia bene con la magia quanto con la spada, che vede benissimo al buio, agile e veloce come un felino, bellissima (ovviamente) e laddove i suoi studi non la soccorrono (rari casi) è in grado di attirare su di sè il fato in forma di consederevoli deus ex machina.
Insomma, forse l’unico personaggio un po’ sopra le righe è la stessa protagonista, mentre i personaggi secondari sono delineati da un’aura di normalità che li rende molto umani e piacevoli.
Nonostante qualche piccola scelta discutibile dalle quali nemmeno lo scrittore più navigato può dirsi davvero libero, l’opera nel suo complesso è piacevole ed appassionante e costituisce una bella esperienza evocativa per gli amanti dell’azione e del fantasy originale.
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Cavie – C. Palahniuk
Prendi un gruppo di aspiranti (e sedicenti) scrittori e chiudili in un ex cinema per tre mesi. Dai loro riscaldamento, acqua e cibo liofilizzato in abbondanza, una camera piccola ma decorosa per ciascuno, lavatrice e toilette funzionanti. Rinchiudili privandoli di stimoli esterni abbastanza a lungo e vedrai come l’istinto dell’uomo verrà a galla e la necessità atavica del dramma prenderà il sopravvento.
Questo “romanzo di storie” di Chuck Palahniuk, Cavie, viene considerato dai più un libro disgustoso. Beh, è impossibile argomentare contro questa asserzione: è vero, quello che viene narrato in queste pagine va ben oltre ciò che una persona grossomodo mentalmente equilibrata potrebbe mai immaginare, anche cercando di immaginare il peggio.
Ho letto romanzi horror che descrivono con dovizia di dettagli le peggiori crudeltà, eppure questo romanzo è riuscito ad alzare di qualche tacca la mia personale soglia di sopportazione allo schifo.
Non è però il disgusto fine a sè stesso l’oggetto di questo romanzo, anzi. A ben vedere, potrei chiedermi come mai io sia riuscita ad arrivare al fondo delle 400 e più pagine senza nemmeno un filo di nausea, nonostante tutto.
Al solito Palahniuk ci getta in un tunnel (o in un cinema) e ci racconta delle storie alienanti, che sembrano troppo assurde per non essere vere, e al di sotto della superficie (un po’ viscida a causa del grasso disciolto) si intravede un disegno, un messaggio, grande e unico, un modo di vedere la realtà che una volta conosciuto non si può smettere di vederlo ancora e ancora, ovunque.
L’autore tratta fin dal suo Fight Club l’atavica tendenza dell’uomo all’autodistruzione, senza la quale probabilmente non avrebbe modo di vivere. Senza il dramma, il rischio della sua stessa fine, non avrebbe nemmeno senso esistere.
Un romanzo crudissimo, che somministra oscenità inaspettate come snocciolasse scene già viste a cui tutti siamo già assuefatti, e che dimostra quanto labile sia il confine tra salute e follia, morale e immorale, vittima e carnefice.
Singolarissimo il rapporto con i personaggi: il narratore è posizionato in una prima persona plurale, che colloca il lettore in una posizione centrale rispetto alle vicende, eppure, la mancanza di un “io”, fa sì che sia l’unico vero osservatore interno e super partes della storia (l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo).
Un romanzo consigliato solo ai lettori dallo stomaco forte e non troppo impressionabili: il rischio è quello di lasciarsi sopraffarre dal senso di disgusto di superficie senza poter apprezzare il contenuto e il messaggio.
Recensione scritta da Sayu
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An education – regia di L. Scherfig
Anni ’60. Jenny ha 16 anni ed è oggetto del sogno ambizioso dei suoi genitori di entrare ad Oxford. Ama la Francia e sognare ad occhi aperti, vorrebbe concedersi qualche divertimento ma deve concentrarsi sullo studio e tutto le è precluso. Finchè un giorno incontra David, bello, maturo e sicuro di sè, che la affascina e le fa conoscere un mondo che aveva solo immaginato, ma a caro prezzo.
An education è un film del 2009 di Lone Scherfig e sceneggiato da Nick Hornby. Nonostante il nostro amore dichiarato per Hornby, siamo costretti ad ammettere che questo film non è esattamente un successone. Forse il piglio graffiante e caustico dell’autore rende meglio sulla carta che non in un film (ma anche no, visto Alta Fedeltà) o forse è semplicemente un’opera non proprio riuscita (in fondo può capitare anche ai migliori). La storia è interessante ma la dinamica è lenta, lentissima… con una sensazione di fondo opprimente e deprimente che dopo il primo terzo del film diventa dominante, per arrivare al suo culmine nel finale.
C’è un sapore non ben chiaro in questa sceneggiatura, un sapore che non siamo soliti riconoscere nell’Hornby più classico. Sembra che, in fondo a tutto, ci sia una specie di moraletta di stampo ormai anacronistico e buonista (studia e fai la brava perchè le tentazioni sono ovunque e si presenteranno sottoforma di un galante giovanotto poco di buono che da te vuole solo una cosa) che delude un po’.
L’attrice protagonista, Carey Mulligan, è senza dubbio molto brava in una parte difficile, un viso pulito acqua e sapone ma un’espressività profonda ed adulta che ben si attaglia al ruolo. Il belloccio di turno, Peter Sarsgaard, invece, ci è risultato assolutamente fastidioso, ben al di là del sentimento di fascino ammaliante che invece avrebbe dovuto suscitare. Se per buona parte del film è, diciamo, tollerabile, nella parte finale del film è un crescendo di indisponenza.
Insomma, un film che si lascia senza dubbio guardare, giusto per la curiosità di vedere come va a finire e qualche moto di spirito per un personaggio-macchietta (un ottimo Alfred Molina nel ruolo del padre di Jenny, bigotto soffocante e generalmente ignorante), ma che una volta giunto a termine lascia abbastanza indifferenti.