Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]
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La versione di Barney – M. Richler
Strano, dai toni quasi mitologici, destrutturato, incasinato, politicamente scorretto. Ma semplicemente divino.
La versione di Barney, di Mordechai Richler, è probabilmente uno dei più famosi romanzi di letteratura moderna in lingua inglese. E per di più è anche divertente.
Barney Panofsky ha vissuto un’esistenza parecchio movimentata. Ormai anziano ripercorre le sue gesta e le disavventure, in Canada, poi a Parigi e poi nuovamente in Canada, attraverso le tre donne della sua vita: Clara, giovane artista squilibrata e bohémienne, la logorroica Seconda Signora Panofsky sposata per ripicca e Miriam, l’unica donna che abbia mai davvero amato e perduto.
Attraverso questo racconto, condito da mille fatterelli, partite di hockey, bevute al bar e acidità verso il suo eterno rivale McIver, Barney ricostruisce la sua vita per dimostrare al lettore (e in fondo anche a se stesso) come non abbia potuto commettere l’omicidio del suo migliore amico del quale è stato accusato e mai del tutto riabilitato.
Una biografia fittizia eclettica e variegata, costruita in modo del tutto non lineare per quanto riguarda tempo e spazio, eppure geniale ed efficace. La pianificazione di questo romanzo risulta essere millimetrica, niente è lasciato al caso, ogni aspetto viene spiegato e illustrato al momento oppurtuno, con il giusto peso e messo in adeguata luce.
I personaggi sono tantissimi e tutti con caratteristiche più che verosimili, ma il protagonista induscusso resta Barney, con tutti i suoi difetti e la sua voce interiore di uomo fondamentalmente buono ma goffo nel trattare i propri sentimenti e quelli degli altri.
Cose che si imparano leggendo questo libro:
1. le finte autobiografie spesso sono più interessanti e divertenti delle vere biografie
2. tutti coloro i quali hanno intenzione di scrivere un romanzo sperimentale dovrebbero leggere questo libro e farsi un po’ di sana autocritica
3. a volte l’entropia letteraria può generare capolavori.
Un romanzo imprescindibile, divertente e caustico, velato dalla sottile malinconia che pervade l’essenza stessa del ricordo e, per questo motivo, ancora più vicino alla realtà che tutti noi sperimentiamo.
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Dannazione – C. Palahniuk
«Mi sente, Satana? Sono io, Madison. Non è vero che quando muori la vita ti passa davanti. Non tutta, almeno. Alcune parti magari sì. Altre, possono volerci anni e anni prima di riuscire a recuperarle. Credo che sia questa la funzione dell’inferno. E’ un luogo dove ricordare. Ma non solo: lo scopo dell’inferno non è tanto quello di dimenticare i dettagli delle proprie vite, quanto di perdonarli. Ebbene sì, i morti hanno nostalgia di tutto e di tutti, ma non rimangono aggrappati alla Terra per sempre.»
Madison ha tredici anni appena compiuti, si vede grassottella, bruttina, ma è molto consapevole della sua intelligenza. E’ figlia di ricche e notissime celebrità del jetset hollywoodiano, fissate con il salutismo, la tutela dell’ambiente e la beneficenza, ma che poi indulgono in psicofarmaci, droghe e abitudini decisamente poco ecocompatibili.
Questa ragazzina potrebbe essere una delle molte, vessate figlie di vip, se non fosse per un piccolo particolare: è morta.
Dannazione di Chuck Palahniuk è un romanzo del 2011 in prima persona, nel quale Madison racconta la sua personalissima esperienza dell’inferno, che è molto diverso da come siamo abituati ad immaginarlo, e ripercorre in flashback i tratti salienti della sua breve vita.
Anche in questo romanzo possiamo ritrovare alcune delle caratterische che ci fanno tanto amare l’autore, ma qualcosa stona rispetto ad altre opere precedenti.
Sarà l’ambientazione decisamente distaccata dalla realtà (per quanto ci siano molti ottimi spunti di riflessione parecchio concreti), sarà la voce lucida e matura della ragazzina: la lettura procede scorrevole, forse troppo, e la sensazione alla fine è quella di non essere arrivati davvero da nessuna parte.
La trama è piuttosto chiara e lineare, eppure alla lettura sembra di registrare alcuni cambi di rotta in corso di navigazione.
Il risultato è un romanzo comunque pregevole, ma meno scioccante e diretto rspetto alle opere precedenti, più conformato alla letteratura contemporanea.
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Le cinque stirpi – M. Heitz
Tungdil è un nano senza famiglia, un trovatello cresciuto sotto l’ala protettrice del reverendo mago Lot-Ionan. Un giorno il padre adottivo lo invia per una missione importante attraverso la Terra Nascosta, e la sua pacifica vita viene sconvolta. Scoprirà che il Male sta avanzando, impossessandosi dei territori prima pacifici, sterminando uomini, elfi e nani che cercando di ostacolarne la crescita.
Le cinque stirpi è il primo romanzo del ciclo dei nani dell’autore tedesco Markus Heitz. Un commento reciso? Potremmo considerarlo come una Troisi di terra teutonica. E non sarebbe un complimento.
Abbiamo trovato questo romanzo deludente sotto tutti i punti di vista, e sotto molti altri arriva ad essere irritante. Banale oltre ogni immaginazione, del tutto privo dell’intrinseco sense of wonder che dovrebbe caratterizzare il genere fantasy. Si inserisce nel (profondissimo) solco tracciato da Tolkien, ovviamente: il Male incarnato che ambisce al potere e alla distruzione, contrastato dal Bene.
La Terra di Mezzo diventa la Terra Nascosta, i cui abitanti sono esattamente quelli che ci si aspetterebbe (Hobbit esclusi). Anche le creature maligne sono le stesse: mezz’orchi, orchi, una piccola digressione che non sorprende nessuno con gli elfi oscuri che vengono chiamati qui albi. Il cattivo, incarnazione del Male è, sorpresa, un mago. Al contrario di Saruman, il mago Nudin/Nod’onn non fa paura a nessun lettore, al massimo un po’ di ribrezzo.
La trama di per sè potrebbe anche essere carina, anche se a circa metà romanzo (il solo primo tomo conta circa 600 pagine) comincia solo ad intravvedersi l’effettivo filo narrativo, dopo 300 e passa pagine di disutile girovagare dei personaggi. Il vero elemento di disturbo in tutto questo è lo stile narrativo. Non sappiamo se attribuire la colpa in toto all’autore o se il flop è anche da ascriversi almeno in parte alla traduzione, fatto è che leggere questo romanzo porta rapidamente all’esasperazione. Innanzitutto il punto di vista della voce narrante è una terza persona distantissima dai protagonisti. Il lettore viene messo seduto in un angolino dove si svolge la scena e da lì assiste, senza prendere mai parte in prima persona allo svolgere degli eventi e alle emozioni provate dai personaggi. E’ arduo appassionarsi alla lettura, proprio perchè mantenere l’attenzione alta con una narrazione così distante è estremamente difficile. Come se non bastasse, lo stile è ridondante e pesante: non viene persa occasione di raccontare questa o quella emozione, raccontare quello che un personaggio sta pensando, raccontare aspetti del carattere e dell’indole di un protagonista. Una narrazione più snella e più concreta, nella quale mostrare questi aspetti, avrebbe sicuramente reso l’esperienza della lettura molto più piacevole.
Un aspetto particolare ci ha stupiti: il discutibile gusto dell’horror mostrato in questo romanzo. Ci sono scene di una crudezza e perversione secondo noi fuori luogo, degni dei peggiori romanzi splatter che possano venirvi in mente. Passaggi che vengono somministrati con una tale noncuranza dal narratore e vissuti dai protagonisti che lasciano un po’ basiti.
Le teste mozzate nelle modalità più bizzarre non si contano, e gli zombie, qui chiamati tristemente semimorti, fanno la loro comparsa anche qui.
Insomma, un romanzo che non brilla certo per creatività, innovazione o originalità, bensì stufa rapidamente e fa passare al lettore qualunque velleità non solo di completare la lettura dell’intero ciclo, ma anche solo del primo volume. Lettura sconsigliata a tutti gli amanti del genere che si pregiano di tenere un po’ alta la propria asticella di gradimento.
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Aggiornamento: a distanza di qualche tempo da quando abbiamo scritto questa recensione, e qualche pagina letta in più (sì, abbiamo iniziato a scriverla attrno a pagina 400) ci sentiamo per dovere di onestà di rettificare qualcosa di quanto espresso qui. Beninteso, il libro non è che ci abbia catturati indissolubilmente in quelle ultime 200 pagine, ma effettivamente qualche filo della trama si è teso quel tanto che è bastato per farci continuare la lettura e farci arrivare alla fine. La narrazione non decolla, e anzi i personaggi sono più caricaturali che mai così come certe situazioni, ma tutto sommato la storia riesce a prendere un certo abbrivio e viene suscitata un po’ di curiosità verso le sorti del nano Tungdil. Resta un romanzo costruito in modo raffazzonato e poco chiaro, ma quantomeno si riscatta un po’ nella parte finale.
Tanto da meritarsi una rettifica.
Ossessione – S. King
«Non esiste alcuna divisione del tempo con cui esprimere il midollo della nostra vita, il tempo fra l’esplosione del piombo dalla canna e l’impatto con la carne viva, fra l’impatto e la tenebra. C’è solo uno sterile replay istantaneo che non ci mostra niente di nuovo. [...] Che effetto prova un suicida quando piomba giù da un cornicione? Sono sicuro che la sensazione sia del tutto sana. Probabilmente è per quello che urlano durante tutto il volo. »
Esistono romanzi che per essere appassionanti e divertenti puntano tutto su uno stile accattivante, stringente o sapientemente cesellato; altri se la giocano con una trama straordinaria, bilanciata con maestria; altri ancora, quando difettano di entrambe le caratteristiche, puntano sul grottesco, sull’eccesso, sull’inverosimile, sul gusto dell’orrido per stupire, stregare, far sognare o quantomeno disgustare il lettore.
Esistono romanzi invece, pochi in verità, che non hanno bisogno di truchetti, non abbisognano nemmeno di avere chissà quale trama accattivante. Sono scritti semplicemente con una tale maestria e sapienza da mettere in luce la realtà che abbiamo tutti di fronte, nè più nè meno.
Uno di questi romanzi speciali è Ossessione, di Stephen King. Pubblicato nel 1977 sotto lo pseudonimo di gioventù Richard Bachman, in apparenza parla di come un giovanotto normale, un giorno parta di testa uccidendo due professori e sequestrando la sua classe.
In realtà, questo romanzo sintetizza con una lucidità agghiacciante quanto la follia non sia una eccezione, una fuoriuscita dagli schemi della normalità, bensì sia un aspetto presente in ciascuno di noi, che si manifesta in tanti piccoli segnali e che, in fondo, serve da punto di equilibrio per affrontare l’impredicibile che ci riserva la vita.
Naturalmente, al lettore superficiale o a colui che affronta un romanzo di questo genere con occhio malizioso, questo libro può apparire osceno e sovversivo, specie di fronte a tragedie avvenute nelle scuole non troppo tempo fa. Qualche mente già fragile ha trovato in Ossessione una giustificazione per i propri istinti violenti, emulandone le gesta. Non deve stupire infatti che questo romanzo, purtroppo, sia da diverso tempo fuori catalogo.
Però, quante volte i romanzi sono stati fonte di emulazione malata? Vogliamo solo parlare di Arancia Meccanica, o delle inclinazioni autolesioniste narrate in Fight Club? Perchè questo romanzo ha dovuto farne le spese?
A nostro avviso, Ossessione è un libro che rivelerà, a chi saprà prestare attenzione, un modo di vedere la realtà dei fatti del tutto nuova e verissima, e questo non significa che sarà necessario impugnare una pistola e darsi alla violenza gratuita per trovarla, bensì darà una visione di apertura e tolleranza verso il prossimo e verso sè stesso, anche quando la propria mente produce pensieri e parole con denti ed occhi.
Non sono gli eventi che fanno impazzire un uomo, ma è il modo in cui vengono affrontati. E tutti noi abbiamo una ferita, piccola o grande, che ci influenza e ci fa deragliare verso il lato oscuro. Solo quando neghiamo la presenza di questa altra faccia della medaglia, allora sì che si arriva allo squilibrio mentale, perchè si tratta di un conflitto rivolto verso noi stessi e il nostro modo di essere.
Ossessione parla di questo, niente di più sovversivo di qualunque libro di psicologia spicciola.
Auguriamo a tutti i lettori di cervello e di cuore di avere l’opportunità di leggere questo libro perchè, pregiudizi a parte, ne vale davvero la pena.
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Il tempo è un bastardo – J. Egan
E’ complesso, quasi impossibile, scrivere un commento utile al romanzo premio Pulitzer 2011 di Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo.
Costruito attraverso una sequenza di racconti incentrati via via su personaggi legati tra loro, viene proposto uno spaccato di vite contrassegnate dalla celebrità, dalla fama e dalla ricchezza e di come le alterne fortune possono comportare fallimenti, rovine, malattie e disgrazie.
Disegnato con una struttura in cerchi concentrici, passando da un personaggio all’altro, viene delineato un arco narrativo circolare, concludendosi là dove il romanzo è iniziato, attraverso un percorso temporale saltabeccante, dal presente, al passato (anche remoto) dei personaggi, fino a qualche accenno del futuro.
L’intera opera evidenzia uno studio e una pianificazione straordinaria, dove nessun aspetto è lasciato al caso. Ciascun racconto è una unità atomica, chiarissimo e autoesplicativo, che potenzialmente può essere letto all’interno di qualunque sequenza con gli altri, eppure ciascun elemento costituisce un tassello nella costruzione di un quadro di amplissimo respiro: vengono via via chiariti punti ed aspetti rimasti aperti in altri racconti, vengono approfondite personalità e personaggi che sembravano marginali e che invece non lo sono.
Nonostante questa complessa struttura, questo romanzo è semplicissimo da leggere e da capire, al punto da essere del tutto disarmante. Lo stile è chiaro, linearissimo, semplice come solo i veri capolavori sanno essere.
Che conclusioni è possibile trarre dalla lettura di questo romanzo? Che ciascuno è protagonista della propria storia e che la nostra si lega indissolubilmente a quella degli altri; che la fortuna è solo un attimo, e che più è intensa più marcato sarà anche il successivo fallimento; che è vero che il tempo è un bastardo per la sua implacabile capacità di spianare, smussare, corrodere qualunque cosa e persona, anche quelle più robuste e in apparenza inossidabili. Ma nonostante questo, il tempo può costituire ancora una occasione, per chi saprà coglierla.
Un libro assolutamente consigliato, anche solo per il semplice piacere di leggere un romanzo innovativo e di grande qualità.
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Portland souvenir – C. Palahniuk
«L’intera città [...] soffre del “complesso del minidotato”. [...] Portland compensa le sue ridotte dimensioni facendo casino e dando fastidio.»
Un libro che è un punto di congiunzione tra la guida turistica, la raccolta di racconti e la biografia. In Portland souvenir, Chuck Palahniuk racconta la vita nascosta della sua città e ce la mostra attraverso gli occhi di ci ha vissuto una vita ne conosce pregi e segreti.
Portland ci viene presentata come una fucina ricca di paradossi e assurdità, di estremi, di sottointesi, di segreti di Pulcinella che conoscono tutti, almeno quelli meglio inseriti nei giochi d’ombra.
Ogni capitolo è dedicato ad un’area tematica, con consigli puntuali tipici della guida turistica, con tanto di indirizzi e numeri di telefono a cui fare riferimento. Le interviste e i personaggi mostrati danno ancora più concretezza alle descrizioni.
Ciascun capitolo è seguito da una “cartolina”, che come spiega l’autore, non proviene tanto da un luogo preciso ma da un momento particolare. Sono frammenti, episodi, provenienti dalla vita di Palahniuk, che danno un assaggio del suo passato e del sapore reale della città.
La conclusione che si può trarre dalla lettura di questo non-romanzo è, a nostro avviso, una sola: l’autore ha attinto a piene mani dalle esperienze e dall’anima della sua città per la realizzazione dei suoi romanzi. Dopo aver letto i suoi microracconti, romanzi come Fight Club ne risultano quasi sintesi ovvie. La realtà allucinata, drammatica, grottesca ed estrema che racconta sono come la prosecuzione del naturale andamento della vita di quella città.
O forse è il suo occhio che ha saputo catturare la realtà bizzarra celata sotto la superficie di una delle pacifiche cittadine del Northwest americano.
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Cavie – C. Palahniuk
Prendi un gruppo di aspiranti (e sedicenti) scrittori e chiudili in un ex cinema per tre mesi. Dai loro riscaldamento, acqua e cibo liofilizzato in abbondanza, una camera piccola ma decorosa per ciascuno, lavatrice e toilette funzionanti. Rinchiudili privandoli di stimoli esterni abbastanza a lungo e vedrai come l’istinto dell’uomo verrà a galla e la necessità atavica del dramma prenderà il sopravvento.
Questo “romanzo di storie” di Chuck Palahniuk, Cavie, viene considerato dai più un libro disgustoso. Beh, è impossibile argomentare contro questa asserzione: è vero, quello che viene narrato in queste pagine va ben oltre ciò che una persona grossomodo mentalmente equilibrata potrebbe mai immaginare, anche cercando di immaginare il peggio.
Ho letto romanzi horror che descrivono con dovizia di dettagli le peggiori crudeltà, eppure questo romanzo è riuscito ad alzare di qualche tacca la mia personale soglia di sopportazione allo schifo.
Non è però il disgusto fine a sè stesso l’oggetto di questo romanzo, anzi. A ben vedere, potrei chiedermi come mai io sia riuscita ad arrivare al fondo delle 400 e più pagine senza nemmeno un filo di nausea, nonostante tutto.
Al solito Palahniuk ci getta in un tunnel (o in un cinema) e ci racconta delle storie alienanti, che sembrano troppo assurde per non essere vere, e al di sotto della superficie (un po’ viscida a causa del grasso disciolto) si intravede un disegno, un messaggio, grande e unico, un modo di vedere la realtà che una volta conosciuto non si può smettere di vederlo ancora e ancora, ovunque.
L’autore tratta fin dal suo Fight Club l’atavica tendenza dell’uomo all’autodistruzione, senza la quale probabilmente non avrebbe modo di vivere. Senza il dramma, il rischio della sua stessa fine, non avrebbe nemmeno senso esistere.
Un romanzo crudissimo, che somministra oscenità inaspettate come snocciolasse scene già viste a cui tutti siamo già assuefatti, e che dimostra quanto labile sia il confine tra salute e follia, morale e immorale, vittima e carnefice.
Singolarissimo il rapporto con i personaggi: il narratore è posizionato in una prima persona plurale, che colloca il lettore in una posizione centrale rispetto alle vicende, eppure, la mancanza di un “io”, fa sì che sia l’unico vero osservatore interno e super partes della storia (l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo).
Un romanzo consigliato solo ai lettori dallo stomaco forte e non troppo impressionabili: il rischio è quello di lasciarsi sopraffarre dal senso di disgusto di superficie senza poter apprezzare il contenuto e il messaggio.
Recensione scritta da Sayu
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Notte buia, niente stelle – S. King
«Scrivere male non è solo questione di cattiva sintassi o scarso spirito di osservazione: si scrive male quando ci si rifiuta di raccontare storie su quel che la gente fa realmente. Quando, mi viene da dire, si rifugge questo dato di realtà: capita che l’assassino aiuti una vecchietta ad attraversare la strada.»
Un anno particolarmente nefasto all’insegna di una serie di scelte sbagliate; una tremenda disavventura fronteggiata da una tranquilla scrittrice di romanzi gialli da salotto; un curioso incontro tra un malato terminale e un bizzarro venditore di “giuste estensioni”; la scoperta di una moglie del piccolo segretuccio del marito.
Questa raccolta di quattro racconti, Notte buia, niente stelle, di Stephen King, certamente entra a buon titolo nella produzione del Re del brivido.
A differenza delle grandi raccolte degli anni giovanili di King (primo tra tutti il celebre “Stagioni diverse”), in questi racconti più che in altri si individua saltuariamente il tentativo dell’autore di “fare sé stesso”, inserendo elementi tipici del suo stile e accenti horror anche laddove magari non sarebbe necessario.
A parte questo però, il libro costituisce una lettura assolutamente godibile. I racconti sono legati da un filo comune, che viene poi chiarito nella postilla finale dell’autore. Le cose brutte succedono e basta, per parafrasare un noto modo di dire americano, e di solito le cose molto brutte possono capitare anche alle persone più normali. E’ questo che King ci racconta: il comportamento, le risorse (o la mancanza delle stesse) che l’uomo e la donna media possono tirare fuori in circostanze eccezionali.
I veri elementi distintivi della produzione kinghiana ci sono tutti, al di là del semplice gusto dell’horror: sopra tutto sono i personaggi ad essere degni di nota, come sempre. Personaggi profondi e complessi, con voci originali e una introspezione degna di un romanzo vero e proprio. Ma sono le storie di questi racconti ad essere a modo loro terribili e indimenticabili. Lasciano dietro di loro una scia di verosimiglianza che non può lasciare indifferente nemmeno il più approssimativo dei lettori.
Una lettura consigliata, ovviamente: come potremmo dire qualcosa di diverso?
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