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Annessi & Connessi
Per noi, i libri sono una faccenda personale. Benvenuto!
Postato da Legione il 17 Maggio 2015

http://annessieconnessi.net/una-notte-di-ordinaria-follia-a-filisdeo/

Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]

 

Archivio del 2012

Verso la luce – A. Djakow

Postato da Legione il 15 Maggio 2012

Metropolitana di San Pietroburgo. Dopo il “disastro”, la vita si è rifugiata sottoterra, ma le condizioni non sono buone. Sembra vigere una sorta di semplice legge del più forte, dove i più deboli, quelli che non hanno nessuno che prenda loro le parti, sono i primi a soccombere. In questo contesto, un orfano di dodici anni di nome Gleb, viene venduto ad uno stalker per un po’ di carne. Dopo un breve addestramento, il ragazzo seguirà l’uomo, Taran, in una missione in superficie di importanza cruciale per la comunità della metro: scoprire chi è il contattista che sta inviando segnali luminosi da un faro verso la terraferma, un tempo spento ed ora rimesso in funzione. C’è un gruppo di superstiti, là fuori?

E’ difficile scrivere una recensione per questo libro, capitolo del progetto Metro 2033 Universe, Verso la luce di Andrey Djakow. Questo romanzo, ci dicono le note, è stato scritto in soli due mesi dal giovane autore alla prima fatica. Senza dubbio, dopo aver letto il volume capostipite Metro 2033 e il ricco romanzo di Avoledo, quest’opera risente sotto tutti i punti di vista dell’inesperienza dell’autore.

La narrazione è in linea generale molto approssimativa, l’idea concettuale su cui si fonda la trama è decorosa ma non particolarmente originale e si riscontrano cali di efficacia espositiva proprio nei momenti di maggior pathos quali le scene dinamiche. Alcuni passaggi della trama sono poi particolarmente forzati, facendo leva su una fortuna immotivata che, come deus ex machina, manda avanti Gleb e lo fa restare vivo nonostante le avversità.
I personaggi risultano stereotipati e piatti, privi di profondità e verosimiglianza (in particolare Taran), mentre la numerosa squadra di coprotagonisti è costituita da elementi con poco mordente e poche caratteristiche distintive. Ciascuno si esprime grossomodo come gli altri, risultando in sostanza dimenticabile una volta chiuso il libro.

Potremmo anche aprire una parentesi sul gusto, opinabile, di scegliere di shockare il lettore attraverso passaggi ed esempi molto crudi e per stomaci forti. Anche gli altri romanzi non lesinano di dettagli, ma in questo caso i cattivi sono anch’essi così stereotipati da risultare fastidiosamente disturbanti.
Certamente non uno dei migliori romanzi della saga Metro 2033 Universe, che però mantiene il quadro generale di desolazione postapocalittica e dell’unica, incrollabile risorsa dell’uomo per andare avanti nonostante tutto: la speranza.

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Corpo libero – I. Bernardini

Postato da Legione il 10 Maggio 2012

copertina-corpo-liberoMartina ha quattordici anni ed un’ambizione: qualificarsi per le olimpiadi. Lei e la sua squadra si trovano in Romania per partecipare ad una delle numerose gare di qualificazione che potrebbero portarle a raggiungere quell’obbiettivo. Ciascuna ragazza è un mondo a sé, affronta a modo suo la fatica, le privazioni ma anche la scaramanzia, la paura di una caduta, la paura di crescere, di ingrassare, di non essere più quell’esserino flessuoso simile ad un gatto e di diventare goffo e normale come tutti gli altri.
Martina e le sue compagne sono ginnaste professioniste, scisse tra la voglia di essere campionesse e la naturale necessità di affetto, coraggio e di essere adolescenti. Scissione che per le più fragili si esprime in gesti insani verso sé stesse e per altre diventa occasione di atti impensabili.
Questo in breve nel romanzo Corpo libero dell’autrice Ilaria Bernardini. Con uno stile del tutto particolare ci viene raccontato questo modo che il grande pubblico non conosce e che forse nemmeno riesce ad immaginare con chiarezza. L’autrice riesce a trasmettere il senso di alienazione che provano le atlete ad essere per esempio in un paese straniero del quale conoscono solo l’albergo, la palestra e quello che riescono a vedere dalla finestra della propria stanza.
Ci viene mostrato anche un assaggio della difficoltà della vita in comune, tipica delle squadre sportive ma anche dei collegi, dove ragazzi devono stare a stretto contatto con persone che non hanno scelto ma con cui devono in qualche modo andare d’accordo, per non turbare l’equilibrio del singolo che poi si esprime come l’equilibrio dell’intero gruppo.
L’autrice riesce ad esprimere con efficacia la voce adolescente della protagonista, attraverso uno stile colloquiale ed in apparenza spontaneo, non troppo dissimile al diario, in cui i dialoghi risultano immersi nel testo, senza segni di punteggiatura per evidenziarli. Questo stile apparentemente istintivo permette quindi al lettore una maggiore immedesimazione nella storia, arrivando a creare un sentimento di pena, quasi, di compassione, nei confronti di queste ragazzine mignon, costrette ad essere elastiche, belle e perfette nonostante i calli alle mani, le schiene deformate e i bagni nel ghiaccio.
C’è anche un accento di giallo, perché anche la tragedia può arrivare ad intaccare la già precaria routine di vite così tanto regolate, il che rende l’intera storia ancora più efficace.
Un libro che consigliamo insomma, per imparare qualche cosa di insospettato e per riflettere su una realtà poco conosciuta e singolare.

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Hunger Games – regia di G. Ross

Postato da Legione il 5 Maggio 2012

Nel grande stato di Panem, a memoria di un’antica rivolta soppressa nel sangue, ogni anno prendono vita gli Hunger Games: un mortale reality show al quale sono costretti a prendervi parte due ragazzi per ciascuno dei dodici distretti, a sollazzo degli abitanti della capitale. Uno solo resterà in vita, in una lotta di sopraffazione e sopravvivenza. In uno dei distretti più poveri, la sedicenne Katniss si offre volontaria per salvare la vita alla sua sorellina Primrose. Forse, quest’anno, il dodicesimo distretto avrà un vincitore.

Questo l’incipit del film campione di incassi sbarcato il pimo maggio in Italia nelle sale: Hunger Games, diretto da Gary Ross. Tratto dall’omonimo romanzo di Suzanne Collins, questo film in apparenza si rivolge al target (ormai rodato) dei giovani adulti, sulla scorta dei successi di Harry Potter e Twilight. Alla proiezione però ci si accorge ben presto di essere di fronte a qualcosa di diverso, che coinvolge nel profondo spettatori di tutte le età, anzi, in particolare quello adulto.
In questo densissimo film (poco meno di due ore, così intense ed incalzanti che sembrano durare giorni interi) sono infatti presenti sfumature che solo un occhio più maturo può recepire ed apprezzare: degli spietati Hunger Games emerge non solo l’insensatezza della crudeltà gratuita e senza scopo, ma anche il gusto del sadismo, del voyerismo, del piacere morboso nel veder soffrire gli altri (in questo caso di un gruppuscolo di giovani terrorizzati che cercano di salvarsi la vita nonostante i furbi e gli addestrati ad uccidere), l’iniquità sociale, la strumentalizzazione dei sentimenti, la necessità di essere unici, di farsi ricordare per sopravvivere in una spettacolarizzazione della vita e della morte.
Apprezzabili comunque anche le altre chiavi narrative, quali l’aspetto sociale (la rivolta dei distretti poveri nei confronti della capitale, sfumatura appena presente in questo film ma che si svilupperà in modo più ampio nei prossimi episodi), l’aspetto avventuroso/violento (ottimo l’espediente già noto della telecamera a mano per le scene più concitate e cruente, in un gioco ancora più angosciante di visione ed intuizione della violenza) e l’immancabile, sigh, aspetto romantico, che in questo caso viene almeno proposto in un’accezione del tutto originale ed interessante.

Ottima la regia, che come detto ha saputo concentrare in poco tempo una quantità di eventi con una tale efficacia da catapultare lo spettatore nel tempo della storia, distogliendolo dal reale passare del tempo, come solo i grandi registi sanno fare.
Ottima la scelta degli attori, brillante Jennifer Lawrence, ormai osannata in tutte le occasioni, molto adatta e credibile nella parte della giovane guerriera, trasmette bene tutta la vasta gamma di sentimenti che Katniss prova. Un personaggio decisamente sfaccettato, questo, che lascia molti spunti aperti e sospesi, vitale, forte e al contempo fragile, mai banale o prevedibile.

Desideriamo aprire una piccola parentesi riguardo quello che ormai sembra infiammare nel profondo tutti i recensori in questi ultimi mesi: la somiglianza tra Hunger Games ed il meno noto e più crudo omologo giapponese, Battle Royale. E’ inutile fare mistero del fatto che l’idea fondante di Hunger Games non sia particolarmente originale: prima e dopo Battle Royale questa è stata infatti sfruttata più o meno indirettamente dalla cinematografia e dalla letteratura internazionale di genere. C’è da dire però che effettuare un paragone tout court tra HG e l’opera giapponese sia quantomeno semplicistico e superficiale. Senza dubbio Battle Royale è molto più incentrato sulla violenza, sulla crudezza senza esclusione di colpi nè censure, cristallizzando i personaggi in riconoscibili stereotipi.
Lo scopo di Hunger Games invece non risiede nella violenza, e non vi indulge più del necessario, perchè i suoi scopi sono altri: attraverso il gioco e la crudeltà gratuita mostra un mondo gretto e conformista, mette in luce gli aspetti sociali e psicologici della morbosità, della violenza vista dal di fuori, al sicuro, della sopraffazione, della mera crudeltà. In Hunger Games i tributi sono, infatti, solo pedine anche quando sono carnefici, perchè vittime, tutti, di un sadico volere superiore.

In attesa di leggere l’intera opera della Collins, consigliamo vivacemente la visione di questo film, che vi rapirà per due ore ma saprà lasciarvi qualcosa, dentro, che probabilmente sarà amaro e profondo, sulla nostra vita e la società e che saprà turbarvi molto più a lungo.

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La ragazza di fuoco.
Il canto della rivolta.

Bioshock: Rapture – J. Shirley

Postato da Legione il 30 Aprile 2012

Ok, lo confesso. Quando mi è stata data l’opportunità di leggere e recensire questo libro, mi sono messa a saltellare in giro per casa ululando “E’ Natale!” Non scherzo, ci sono i testimoni.
BioShock è senza dubbio una delle serie videoluche che preferisco, non tanto dal punto di vista del gameplay quanto per la storia che racconta. Nei due episodi il giocatore viene a contatto con un mondo fantascientifico e appassionante ambientato in una superba città sottomarina, Rapture, ormai vittima della rovina e della decadenza.
Gli indizi e le testimonianze di un glorioso e sinistro passato si susseguono durante il gioco, e danno profondità e credibilità all’esperienza di gioco.

E’ qui che si colloca questo superbo romanzo di John Shirley, Rapture. Nel libro viene raccontata la genesi del sogno visionario di Andrew Ryan, magnate dalle umili origini arrivato alla gloria e alla ricchezza con le sue sole forze. Alla fine del secondo conflitto mondiale e davanti alla minaccia di un olocausto atomico, Ryan decide di costruire questa sua visione di liberismo e libertà personale ed economica: una città protetta dall’oceano, nella quale ciascun individuo potrà essere fautore della sua ricchezza. Nessuna legge, nessuna tassa, nessuna pastoia legale o morale, nessun dio, solo l’uomo.
Davanti a questa allettante prospettiva si sviluppano quindi innumerevoli storie di uomini e donne che accettano Rapture come un dono, una prospettiva di vita migliore.

Ma, come si può immaginare, una situazione del genere non brilla certo per stabilità, ed infatti ben presto Rapture si trasformerà in una polveriera, con le forze di Ryan da una parte e quelle di Frank Fontaine, truffatore incallito, dall’altra a contendersi il controllo della città e delle sue ricchezze. In mezzo, come sempre accade, si troverà la gente comune, raccontata attraverso gli occhi buoni e onesti di Bill McDonagh, che sarà testimone delle iniquità e del rapido decadimento dell’utopia.

Un romanzo di questo genere si prende carico di un compito difficilissimo: scrivere la nascita di Rapture e di un mito videoludico, ricco (anzi trabordante) di indizi, riferimenti, informazioni, personaggi, che come tante tessere di un puzzle vanno a delineare un quadro complesso e articolato, che il romanzo si propone di comporre ed ordinare.
La storia risultante è appassionante, ben oltre quello che Bioshock lasciava immaginare.
Il lavoro di reperimento delle informazioni è stato magistrale, degno della genesi di un romanzo storico: le citazioni vengono riportate fedelmente ed inserite nel loro contesto, i personaggi hanno i nomi e i volti che abbiamo imparato a conoscere ma grazie al romanzo acquistano una voce, uno spessore ed un carattere che li rende vividi, realistici, vibranti in tutti i loro difetti e debolezze. I tratti distintivi che amiamo in BioShock ci sono tutti, in grande abbondanza: i luoghi, le torrette di sicurezza (mi sembrava di sentirne i loro allarmi irritanti), gli annunci agli altoparlanti, i cartelli art décò e ovviamente i ricombinanti, i plasmidi, i Big Daddy e le sorelline. Un meraviglioso lavoro di intarsio, in cui ogni singolo pezzo va a posto, disegnando un quadro fanta-sociopolitico di rara bellezza e complessità.

Insomma, un romanzo che non deluderà le aspettative (legittimamente alte) degli amanti di BioShock e che piacerà moltissimo a chi non conosce il titolo e che, senza dubbio, li incuriosirà.
Un libro irrestitibile, assolutamente consigliato.

Recensione scritta da Sayu

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La bestia e la bella – S. De Mari

Postato da Legione il 25 Aprile 2012

Quante volte, davanti all’ingiustizia e all’iniquità, abbiamo pensato che sarebbe bello che la ruota girasse anche per gli arroganti e che il Fato, o il karma, li facesse diventare creature minuscole, neglette, povere di mezzi e di spirito, per pareggiare i conti?
In questo piccolo libro di Silvana De Mari, La bestia e la bella, accade esattamente questo, come solo nelle grandi e semplici fiabe può succedere.

Un principe, arrogante, antipatico ed ingiusto con i più poveri del suo regno, viene inspiegabilmente trasformato in un cane. Non uno dei suoi altezzosi cani da compagnia o i suoi potenti cani da caccia, bensì in un botolo pulcioso, di razza indefinita, e nemmeno tanto bello.
Da quel momento si troverà quindi solo e abbandonato al freddo e al gelo, scacciato da tutti come lui stesso scacciava i bisognosi dalla sua vista, finchè qualcuno di insospettato, proprio grazie alla sua condizione di cagnolino, gli darà una lezione di vita che lo cambierà nel profondo.

Non si può certo dire che questa favola sia particolarmente originale o stupefacente, in fondo per qualunque adulto è semplice immaginarne il finale. Il valore aggiunto è costituito dall’abilità della De Mari, che già abbiamo rilevato nel suo pregevole L’ultimo orco e che qui da il suo meglio proprio per rendere unica una storia delle più semplici.
La De Mari scrive “di pancia”: si lascia trasportare dal racconto, con l’eloquenza dell’istinto, al punto da far sorridere spesso il lettori in molti passaggi. Ma di istintivo non c’è niente, anzi: l’esperienza da psicologa si esplica anche in questo volumetto, scegliendo similitudini e sfaccettature dei personaggi che li rendono veri, vividi, pensanti, con sentimenti veri. In una parola, umani, in cui ciascuno può riconoscere le proprie debolezze.
Consigliamo questa favola a tutti: ai bambini, alle loro mamme, a tutti quelli che si arrabbiano davanti alle ingiustizie e che vorrebbero che la gente imparasse a riconoscere i propri errori e a diventare delle persone migliori.

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L’ultima sposa di Palmira – G. Lupo

Postato da Legione il 22 Aprile 2012

Il grande terremoto del 1980 che colpì l’Irpinia e fece tanti danni e tanti morti in Campagna e Basilicata, fece scomparire anche un piccolo paese, ignoto ai più, dall’esotico nome di Palmira. Si reca sul posto un’antropologa, per documentare la realtà locale del disastro. Invece di trovare la disperazione che ha già visto più volte in scenari simili, incontra un falegname, Mastro Gerusalemme, che sta realizzando i mobili per una futura sposa, Rosa Consilio, l’ultima sposa di Palmira. Attraverso un intarsio e una visita al paese distrutto, Mastro Gerusalemme racconta storie al limite del surreale, del fantascientifico e del pagano, che hanno popolato Palmira e i suoi abitanti di superstizioni, riti scaramantici e misteri.

L’ultima sposa di Palmira di Giuseppe Lupo racconta, con uno stile che definiremmo quasi desueto, una storia fatta di misteri e credulità popolare che ci fa ricordare La casa degli spiriti della Allende, forse portato ancora più all’estremo.
La cura e la scelta di ciascuna espressione traspare da ogni pagina: nessuna parola è stata lasciata al caso, anche la scelta di vocaboli di marcata “meridionalità” manifesta una scelta ponderata e voluta, che serve ad avvolgere il lettore nelle spire del tempo, portandolo indietro, facendogli credere di leggere un romanzo dei primi del ’900 invece di un testo moderno. Stride, infatti, rendersi conto che il testo è ambientato solo nel 1980, e fa quasi storcere il naso leggere di oggetti e concetti moderni.

In questo libro a farla da padrone è certamente lo stile, come detto, e senza dubbio questi episodi così particolari fanno sì che la lettura non sia mai monotona o prevedibile. A parte questo però, questo libro ha un po’ poco mordente, poco ritmo, forse perchè non ha una vera e propria evoluzione, bensì racconta uno spaccato di vita inframmezzato di racconti che fanno parte di uno stesso contesto ma che riescono poco a formare un tutt’uno organico.
La lettura è lenta, meditativa forse, ma con poco sprone per proseguire.
Nel complesso non si può certo dire che sia un cattivo libro, ma forse è dedicato a palati adatti, che ricercano storie immaginifiche di vecchio stampo, che amano perdersi dietro chimere e antichi fuochi fatui.

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L’umore del caffè – M. Miele

Postato da Legione il 19 Aprile 2012

Il Nero torna al suo paese natìo, Ginepre, reduce dalle batoste della vita ricevute in quel di Roma. Lì prende gestione del locale commissariato e ben presto si trova a dover riaprire il caso dell’omicidio di quattro ragazzi suoi coetanei e amici brutalmente uccisi vent’anni prima durante una festa sulla spiaggia per il quale non fu mai trovato un colpevole. Tra piatti di pesce in compagnia, ricordi di gioventù e indagini a volte con mezzi un po’ amatoriali, il Nero e i suoi amici riusciranno a far chiarezza su un mistero che ha attraversato la loro gioventù, il loro piccolo paese e le loro vite.

L’umore del caffè è il romanzo di esordio del toscano Marco Miele, un giallo leggero, ironico, molto influenzato dall’ambiente in cui si svolge la vicenda che è poi la terra dello stesso autore, che riesce a trasmettere in modo a nostro parere efficace quella certa aura scanzonata tipica dei toscani.
La struttura della trama è piuttosto ben pensata, la tempistica degli eventi è ben calibrata ed il grado di mistero viene dosato con efficacia lungo tutto il romanzo, mantenendo viva l’attenzione del lettore. I personaggi sono vari e tridimensionali, piacevoli nelle loro caratteristiche peculiari, si descrivono efficacemente da soli, con le loro stesse parole e le piccole manie. Particolarmente ben riusciti sono gli amici stretti del Nero, in entrambe le versioni giovani e mature, mentre i personaggi a corollario, come i colleghi del protagonista ed alcuni elementi più a margine, sono molto meno definiti e quindi risultano incolori accanto agli altri.
La pecca fondamentale di quest’opera è la completa mancanza di editing, del quale avrebbe molto bisogno per correggere in particolare la punteggiatura, del tutto arbitraria.
Anche la costruzione dei periodi spesso è farraginosa e il ricorso al regionalismo in alcuni passaggi è talmente marcato che risulta quasi impossibile capire l’effettiva dinamica senza rileggere almeno un paio di volte la porzione di testo. Il tratto più importante dell’apertura del romanzo, la descrizione dell’aggressione dei quattro ragazzi, è così confusa e senza pathos che rischia di non catturare adeguatamente l’attenzione del lettore.
L’umore del caffè è senz’altro un buon tentativo per questo scrittore alla prima fatica, che dimostra un potenziale grezzo ma concreto, che con un po’ di cura maggiore e magari l’aiuto di un lettore professionista potrebbe esprimersi al meglio, con buona soddisfazione per autore e lettori.

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Le radici del cielo – T. Avoledo

Postato da Legione il 16 Aprile 2012

Nello scenario post apocalittico proposto da Metro 2033 di Dmitry Glukhovsky, i riflettori si sono spostati a sud, in Italia. La terra del sole si è trasformata in una landa desolata sferzata dal vento gelido e dalla neve. Piccole comunità si sono conservate, più o meno in salute, spesso grazie alle antiche città fortificate le cui mura hanno ripreso la loro originaria funzione. Nella città eterna, cuore pulsante della storia e della fede, i superstiti si sono rifugiati nelle catacombe di San Callisto e lì hanno fondato il Nuovo Vaticano. Il soglio pontificio è vacante da 20 anni, e la credibilità della Chiesa inizia ad essere sensibilmente in pericolo. Il cardinale camerlengo quindi invia padre John Daniels all’esterno, in una missione che ha dell’incredibile: arrivare fino a Venezia e convocare a Roma il Patriarca, l’unico esponente della Chiesa di Roma in carica.

Tullio Avoledo ha realizzato con successo il capitolo italiano del grande progetto di Metro 2033 Universe, Le radici del cielo. Un romanzo molto affascinante, nel quale l’autore ha riversato tutto il suo talento visionario. Lo scenario è molto meno claustrofobico di Metro 2033, in quanto solo una parte piuttosto limitata dell’azione si svolge sottoterra, mentre il resto si snoda, al contrario, in viaggio. Le circostanze ambientali sono quindi le più varie: i protagonisti si troveranno a fronteggiare pericoli senza nome su strada, all’interno di palazzine ed edifici medievali, che non mancano di certo nel territoio italiano centrale ed intere cittadine, abitate dalle più bizzarre creature.
La storia viene narrata in prima persona dal protagonista, padre John Daniels, che si trova ad affrontare questo viaggio alla scoperta, di fatto, di come si è evoluto il sentimento di fede religiosa dopo la catastrofe. E’ infatti questo il punto focale del romanzo, studiare il futuro distopico della religione, quale forma avrà, se le credenze moderne riusciranno a sopravvivere o se ne verranno adottate di nuove, dopo che saranno state messe alla prova dall’avvento della paventata Apocalisse.
Avoledo riesce perfettamente nell’intento di congetturare queste forme di culto, disegnando scenari crudi e credibili. Di contro, moltissimi e variegati altri spunti interessanti non vengono colti, lasciando la sensazione nel lettore di essersi perso qualcosa che avrebbe potuto arricchire lo scenario di una profondità ancora maggiore.
Gli aspetti horror della storia indulgono volutamente nella crudezza, con dovizia di dettagli, con l’intento di sconvolgere il lettore ma manifestando piuttosto una certa ritualità che non riesce sempre a cogliere l’immaginazione del lettore lasciandolo spesso indifferente.

Nel complesso comunque Le radici del cielo costituisce una lettura appassionante, dinamica e ricca di colpi di scena, scritta con indubbia maestria (strizzando l’occhio agli stili più graffianti d’oltreoceano anche attraverso battute molto cinematografiche e citazioni più o meno velate di grandi classici della fantasy e della fantascienza), che si inserisce con efficacia all’interno dell’universo distopico post pocalittico che ormai stiamo imparando a conoscere.

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