Un po’ di spacconate, un po’ di humor nero, un po’ di splatter, un pizzico di pulp: Una notte di ordinaria follia di Alessio Filisdeo è un mix ben equilibrato di scene di violenza allucinata, scene genuinamente originali e horror dagli accenti più classici. Questo ebook dalla brevità fastidiosa suona quasi come un antipasto ad [...]
Archivio del 2009
Uomini che odiano le donne – diretto da N. A. Oplev
Come avevamo annunciato mesi fa, siamo finalmente riusciti a vedere il film tratto dal primo romanzo della trilogia di Millennium, dalla compianta penna di Stieg Larsson. Come dice il proverbio, riferendosi letteralmente al mondo editoriale, nulla, persone e libri, andrebbe mai giudicato dalla copertina. Invece noi ci eravamo lasciati trarre in inganno dalla locandina del film, che abbiamo trovato di pessimo gusto, e dalla scelta dei gli attori per le parti principali.
Come vuole l’adagio, tuttavia, siamo stati smentiti sulla lunghezza: il film è risultato piacevole, ben strutturato, addirittura una buona sintesi dei numerosi fatti che si verificano nel romanzo, arrivando ad essere un’ottima riduzione della storia.
E nonostante lo stridìo iniziale al momento di fare la conoscenza degli attori, alla fine si può dire che non siano stati frutto di scelte sbagliate, almeno non troppo.
Lisbeth, interpretata dalla giovane Noomi Rapace, nonostante venga spesso truccata da dark, cosa che nel romanzo assolutamente non è, riesce a dare bene l’impronta caratteriale di questo personaggio così complesso (senza contare il suo corpo impressionante, esattamente come quello del personaggio: asciutto, minuto, ma un fascio di muscoli. Vederle i tendini del collo in un paio di scene ci ha leggermente shockati).
Mikael e Erika (che non viene nemmeno nominata, relegandola a puro contorno, e non troviamo che sia stato un errore) sono stati scelti seguendo la precisa indicazione del romanzo, facendoli interpretare da attori di mezza età. E se alla fine Michael Nyqvist ci risulta simpatico anche se a volte un po’ poco espressivo e forse non troppo affascinante come il suo personaggio vorrebbe, nei confronti di Lene Endre viene voglia soltanto di gridare a gran voce: “Tagliati ‘sti capelli!”.
Ottima la scelta della giovane Harriet, perfettamente calzante nel personaggio dal punto di vista estetico, della quale più che altro abbiamo solo una rappresentazione: una fotografia in bianco e nero in una perfetta performance di sorriso monnalisiano. Ottimi, ma al negativo, praticamente tutti gli altri personaggi maschili (esclusi Frode ed il poliziotto, gli unici con la coscienza pulita), ed è impossibile non godere sadicamente durante l’ultimo “rendez-vous” di Lisbeth con Bjurman.
Insomma, un film che nonostante le aspettative ci ha soddisfatti, lasciandoci curiosi nei confronti delle riduzioni degli altri due romanzi, molto molto più complessi.
Colpo di fulmine alle terme – P. G. Wodehouse
Terzo ed ultimo libro di questa serie un po’ singolare di letture, che continueremo con altri titoli un po’ fuori dalle nostre consuetudini.
E per restare in tema di letture sopra le righe, questo è senz’altro un libro calzante. In una sola parola lo si potrebbe definire “British”, in tutto ciò che ne consegue. Lo snobbismo caricaturale tipico dei gentlemen inglesi di inizio Novecento, fatto di pomposità nel vestire, piccole manie, vizio del gioco e salvaguardia delle apparenze, ma soprattutto un umorismo a denti stretti, che sfora spesso nel paradossale, a volte regalandoci una sana risata con tanto di scotimento di capo davanti a certe trovate.
Wodehouse raccoglie in questo libro una serie di ritratti di alcuni personaggi tipici del clichè inglese, che si muovono in contesti altrettanto tipici. Lo scommettitore incallito che alla fine di mille peripezie riesce sempre a gabbare moglie e sfortuna; il gentleman dall’altissima considerazione di sé tarpato dalla società e dalla zia che non lo foraggia mai a sufficienza nonostante il suo elevato status sociale; l’anziano zio ricco che fa a gara con gli altri ospiti delle terme per dimostrare di essere più malato degli altri.
Una serie di caricature parodistiche dell’Inghilterra che fu, che sanno ancora adesso regalarci sorrisi, sebbene l’oggi sia così distante dal mondo che raccontano. Un autore sicuramente da ricordare, per alcune piacevoli e scorrevoli letture di svago.
Dracula – B. Stoker
Trama: quando il giovane avvocato Jonathan Harker è inviato in Transilvania per affari, si trova costretto ad affrontare le sue terribili paure. Perché il suo ospite e carceriere altri non è che il Conte Dracula, il leggendario vampiro.
Dopo aver letto Lasciami Entrare di Lindqvist non potevamo non interessarci al romanzo che, se vogliamo, ha dato il via a tutta la letteratura vampiresca dell’ultimo secolo. Ci ha stupito -ma forse non più di tanto- ritrovare nell’opera di Stoker tutto quello che “sapevamo” sui vampiri e che avevamo imparato dalla filmografia di genere, o (perché no?) da Dylan Dog. In fondo, il vampiro dello scrittore è esattamente quello che ha portato questa icona dell’orrore alla ribalta rendendolo un archetipo della paura ben radicato in ognuno di noi.
Il vampiro di Stoker è forte, fortissimo, dalla sensualità tanto forte e irruente quanto ambigua, capace di ammaliare e uccidere con una crudeltà inimmaginabile. Accanto a questa forza, a bilanciare abbiamo le sue debolezze più famose, magistralmente orchestrate per renderlo credibile. Questo essere immondo è incastrato perfettamente nel mondo descritto da Stoker, il mondo reale del ‘900 che non deve essere stravolto per giustificare l’esistenza del mostro: Dracula è inserito nella realtà come ognuno di noi, forse anche meglio, e si muove seguendo e combattendo le regole fisiche e sociali senza che queste debbano piegarsi alla semplice sua esistenza. Forse è proprio in questo il punto forte del romanzo. Fatta eccezione per i suoi poteri soprannaturali, il Mostro non è riconoscibile, non ha segni tangibili della sua diversità. “Ecco perché si dice che il vampiro sia invisibile allo specchio. Egli c’è, ma noi non lo riconosciamo, dal momento che il nostro stesso viso lo cela”. È difficile, difficilissimo creare un essere sovrannaturale ben bilanciato, capace di fare si paura ma anche di risultare credibile e non tanto forte da sfondare nel ridicolo. Il Dracula di Stoker centra il bersaglio e fa punteggio pieno.
Un po’ meno i protagonisti del racconto, omaccioni senza paura capaci di sciogliersi in lacrime non appena la bella Mina accenna anche una sola invocazione a Dio. La costruzione dei sei antagonisti di Dracula è decisamente surreale, stona con l’atmosfera realistica che permea il romanzo e forse è l’unico difetto del libro di Stoker che viene comunque irrimediabilmente rovinato da questa macchia. Del resto, il Dracula del libro è praticamente invisibile, lo vediamo incessantemente solo nei primi capitoli per passare poi a delle apparizioni tanto sporadiche quanto brevi e non “pericolose”. I sei eroi ci raccontano l’avventura attraverso i loro occhi, se vogliamo chiamarli così, occhi che -per quanto capaci di spaziare i più diversi stili narrativi- sono troppo pieni di una fede palesata e sensibilmente fittizia per avvincere il lettore nel profondo. È un peccato, ripetiamo, perché la storia ha tutte le carte in regola per essere appassionante, avvincente, travolgente e chi più ne ha più ne metta. Stoker riesce a creare un buon “novanta per cento” di capolavoro buttando alle fiamme la possibilità di diventare immortale solo per tessere le lodi di un Dio -poi perché proprio lui? Perché le croci e non anche i versetti del Corano?- che ovviamente non si degna mai di intervenire e aiutare i suoi fedeli nella distruzione del Mostro. Ok, certo, siamo nell’Inghilterra del 1890 e questo è sicuramente un segno del tempo, ma non ci sarebbe dispiaciuto vedere Stoker “tirar fuori le palle” e riuscire a metter giù dei personaggi un po’ più credibili. Nonostante questo, diamo a Cesare quel che è di Cesare e non ci stanchiamo di ripetere che il Dracula di Bram Stoker è un capolavoro, il capostipite della letteratura vampiresca che ha partorito quel mostro capace di entrare negli incubi di tutti in meno di un secolo. Tanto di cappello.
Recensione scritta da RM
Un uomo purché sia – G. Schelotto
Come abbiamo detto precedentemente, questo è un altro di quei libri un po’ inconsueti che ci siamo concessi in questa fine-estate. Questo libro, non un romanzo ma un piccolo trattato di psicologia a sfondo divulgativo, narra attraverso dei brevi racconti alcuni dei modi di vivere che caratterizzano diverse tipologie di donne alla ricerca dell’amore.
Con l’ausilio di questi “case study”, scritti dalla stessa Schelotto come summa di storie reali che le sono state sottoposte nel corso degli anni, descrive successivamente il tipo di problema psicologico della protagonista femminile che inevitabilmente la conduce ad essere scontenta della propria situazione sentimentale.
Questo libro può risultare estremamente utile per tutte coloro che potrebbero ritrovarsi in una o più delle storie raccontate, non perchè alla fine venga concessa la panacea risolutiva a ciascun problema, ma perchè talvolta può tornare utile vedere la propria situazione, per quanto critica, narrata dall’esterno, senza i fronzoli e le attenuanti che inevitabilmente vanno a confluire nel raccontare le proprie sventure.
Un’opera che può anche essere letta semplicemente in quanto tale, una raccolta di brevi storie, di ritratti femminili, che commettono errori o si trincerano anche involontariamente in modi di pensare inculcati nell’infanzia o che ripercorrono ancora i reflussi delle sofferenze vissute nel passato influenzando il futuro.
Quella stronza del mio capo – B. Clark
Sull’onda dell’entusiasmo, e anche per leggere qualcosa di diverso, questa settimana abbiamo raccolto una serie di libri piuttosto dissimili tra loro e da quello che di solito leggiamo. Iniziamo quindi con questo romanzo, non particolarmente nuovo (del 2007) che ci ha attirati naturalmente con il titolo così forte.
La trama è semplice da riassumere: Claire, giovane donna alle prese con i fidanzati falliti e il lavoro che si inclina, in un colpo solo trova l’uomo perfetto e una prospettiva di carriera brillante. Ma non tutto sarà rose e fiori…
Così come annunciava la quarta di copertina, questo romanzo è per l’editoria ciò che “Il diavolo veste Prada” è per la moda, e la similitudine, a posteriori, la dice lunga anche sulla sua struttura e la sua trama: un libro gradevole, simpatico e leggero, da leggere in pochi giorni senza grande impegno mentale, ma che non brilla per acutezza o particolare innovazione rispetto al romanzo della Weisberger che invece aveva costituito senza dubbio un’eclatante novità letteraria quando uscì.
Un po’ debolina anche la trama, che infine ricalca una favola moderna di una novella Cenerentola vessata dal lavoro e con un fidanzato distratto che infine trova amore vero ed equilibrio. Ma non vi diciamo di più, visto che il romanzo è davvero tutto qui!
Harry Potter e i Doni della Morte – J. K. Rowling
Trama: dopo la morte di Silente, Harry ha una sola missione: recuperare e distruggere tutti gli Horcrux, gli oggetti in cui Voldemort ha racchiuso la sua anima nel tentativo di diventare immortale. Ma per trovarli dovrà passare diverse prove e risolvere molti indovinelli ideati dallo stesso preside. Nel frattempo, però, Colui-che-non-deve-essere-nominato fa le sue mosse e l’intero mondo della magia è costretto a mettersi contro il Prescelto.
Abbiamo ripreso in mano questo ultimo libro trascinati dall’entusiasmo che il (pessimo) film da poco uscito nelle sale (Harry Potter e il Principe Mezzosangue, N.d.Staff) ha riacceso verso questa bellissima serie Fantasy, una delle poche serie del genere completamente originali dopo la famosa opera di Tolkien. Lo abbiamo letteralmente divorato (del resto, le 600 pagine del libro sono scritte in maniera tale che una edizione economica ne durerebbe massimo 250) e siamo rimasti… tremendamente delusi. Lo stile della Rowling lo conosciamo già: è lo stile di una casalinga che di punto in bianco si trova a scrivere una serie di sette libri destinati ad affascinare lettori di tutto il mondo. Niente di eccezionale, sicuramente uno stile scorrevole e leggero che non si sottrae alle difficoltà di descrivere con -relativa- minuzia di particolari lo strano mondo di Harry. È nel punto di forza del romanzo che sta anche il suo punto debole: la Rowling è inesperta, incapace di gestire al meglio le situazioni che lei stessa mette in un calderone troppo piccolo e finiscono per trabordare. Se per più della metà del libro abbiamo davanti il solito Potter, ad un certo punto siamo sconcertati di fronte alla più geniale (forse) e peggio gestita (sicuramente) trovata dell’intera saga che smorza ogni entusiasmo e spegne gli animi, lasciando che gli ultimi dieci capitoli circa del romanzo scorrano nella più totale indifferenza eccetto alcune scene più movimentate, comunque avvincenti. La Rowling pretende troppo da se stessa e rischia di rovinare l’impresa per la quale sarà comunque ricordata: creare un mondo fantasy originale, separato dalla Terra di Mezzo di Tolkien e riuscire a far si che questo mondo penetrasse nell’immaginario di milioni di persone. Avrebbe potuto finire meglio, ma non possiamo comunque esimerci dal fare i nostri complimenti all’autrice.
Recensione scritta da RM
La regina dei castelli di carta – S. Larsson
Infine, eccoci arrivati al capolinea di questa trilogia così ponderosa nata dalla penna del compianto Larsson. Già solo prendere in mano il volume (più di 800 pagine), che non è certo nel formato più adatto ad essere portato in spiaggia, diciamolo, crea un po’ di soggezione.
A voler essere cattivi, tirando le somme, le difficoltà in cui si incorre nella lettura sono numerose: vogliamo ricordare tutti i nomi svedesi dei personaggi, anche quelli non proprio fondamentali? Vogliamo tenere ben presente la geografia di tutti i sobborgi e i quartieri di questa città svedese in cui è ambientata la faccenda (che non ricordiamo, nemmeno quella), giacchè ce ne viene fornita un’accurata descrizione toponomastica (impronunciabile)? Vogliamo azzardarci a ripercorrere le fasi salienti dell’intreccio?
Ok, questi romanzi sono complessi, ne abbiamo già parlato, è una cosa assodata. Seguire veramente tutta la vicenda implica una buona dose di attenzione, anche per bypassare i problemi sopraelencati.
Ma, nonostante tutto, non possiamo esimerci dal dire che quest’opera è frutto di grande lavoro di pianificazione. L’intreccio è complesso e delicato, potenzialmente vulnerabile a falle e cadute banali. Invece riesce ad arrivare alla fine senza sdruccioloni.
Solo due note: a chi paventa un quarto libro dobbiamo dire che l’ipotesi non è poi così remota, anzi. La storia si conclude, è vero, ma lascia molto terreno per ulteriori sviluppi.
In secondo luogo, vogliamo dire che l’uscita di questa “storia importante” del Messer Sciupafemmine (il protagonista) sia stata un po’ forzata? Diciamolo. Per nulla credibile. L’autore è riuscito ad imbastire una storia accettabile e perfino invidiabile di reiterato tradimento con il rapporto contorto con la collega Erika Berger, ma non risulta convincente affatto con questa storiella nata in poche pagine e senza troppi dettagli introspettivi. Sembra un’espediente trovato da un editor per giustificare un certo tipo di finale aperto, lascia un sapore stonato che stride, pur nella sua posizione marginale.
Infine, ancora una volta complimenti per il titolo più che azzeccato del romanzo.
Restiamo in attesa di eventuali nuovi sviluppi, destreggiandoci tra i dubbi manuali che vogliono fungere da guida retrospettiva dell’opera.
Hey Prof! – F. McCourt
Trama: un professore ormai in pensione ripercorre passo passo la sua carriera di insegnante. Il primo incontro con i ragazzi, le storie degli adolescenti americani di ogni tipo di scuola, le aspirazioni a cattedre sempre più importanti e l’arrivare a capire che, nonostante l’apparenza, insegnare non è solo inserire nozioni nella testa dei giovani.
Il libro di Frank McCourt è interessante sotto molti punti di vista. Primo su tutti, è la storia di un Irlandese cresciuto nel periodo più buio delle lotte per l’indipendenza del paese dal Regno Unito emigrato negli Stati Uniti d’America con la speranza di fare soldi e rendere orgogliosa la propria famiglia. Poi è la storia di un insegnante come tanti, uscito da un’università dove nessuno gli ha mai detto a cosa realmente sarebbe andato incontro: a che serve se chi ti dice come si insegna agli adolescenti non ha mai nemmeno messo piede in un liceo se non da ragazzo? Ancora, la storia di un uomo timido, fondamentalmente solo, facile a farsi trascinare dagli altri e forse anche un po’ debole di mente. Il tutto condito di molta autoironia e tanto sarcasmo, pochi peli sulla lingua e tanta voglia di raccontare le cose per come sono senza voler fare favori a nessuno. Ci troviamo davanti a tantissimi interessanti aneddoti su ragazzi di ogni età, etnia, ceto sociale con i problemi che tutto questo di porta dietro. Troviamo tanta introspezione, molta autocommiserazione, ma tutto sempre raccontato con il piglio giusto, quello che permette al lettore di esclamare tutto contento quando si riconosce nelle parole di McCourt. E allora cosa c’è che non va?
C’è che il libro è tutto questo. Trecento pagine circa di aneddoti, tutti ben scritti, ma privi di un qualcosa di fondamentale: un vero e proprio filo conduttore. Forse è stato il non prendersi quasi per niente sul serio, ma alla fine quello che fa McCourt è mettere in fila, uno dopo l’altro, aneddoti che per quanto interessante non sono niente di più. E trecento pagine di storielle sconnesse possono risultare molto, molto pesanti da sopportare. È un peccato, perché il libro è scritto bene e si fa leggere molto piacevolmente, nonostante a volte la traduzione ci dia un po’ da pensare. Peccato. Ma come direbbe lui stesso… riprovaci, Frank!
P.S.: ironia della sorte, Frank McCourt è morto lo stesso giorno in cui ho scritto questa recensione. L’ho saputo trenta minuti dopo aver premuto il tasto “salva”. Quindi lui non può più riprovarci, ma possiamo farlo noi con Le Ceneri di Angela o Che Paese, l’America.
Recensione scritta da RM