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Hunger Games, Il canto della rivolta parte 1 – regia di F. Lawrence
Avevamo lasciato Katniss in balia dell’orrore e della confusione più totale: l’arena dei giochi dell’Edizione della Memoria è stata infranta, un hovercraft è arrivato per prelevare lei e altri tributi mentre Peeta e Johanna sono stati lasciati sul campo di battaglia, in balia degli emissari di Capital City.
Ed è così che ritroviamo Katniss in questo episodio di transazione verso il climax finale della saga Hunger Games: una ragazza cresciuta troppo in fretta e sfibrata da giochi di potere più grandi di lei, circondata da persone che la vogliono usare come simbolo e che come tale la trattano.
L’unico suo vero desiderio in questo momento sarebbe quello di uscire da quell’incubo in cui le circostanze e il suo spirito di sopravvivenza (in realtà lo spirito di salvare le persone a lei care dalla sofferenza) l’hanno gettata suo malgrado.
Nell’illustrare questa situazione di disequilibrio, il regista e gli attori stessi sono molto efficaci. La Katniss della Lawrence risulta distrutta emotivamente, schiacciata dalla paura di poter concretamente perdere del tutto Peeta e allo stesso tempo di mettere a rischio la vita di sua madre, sua sorella e di Gale, che dimostra di nutrire un amore tanto disperato quanto univoco nei suoi confronti. La Alma Coin presidente del distretto 13 di Julianne Moore, spalleggiata dal compianto Philip Seymour Hoffman nei panni di Plutarch Heavensbee, è rapidamente insopportabile, con la sua aria di onestà che lascia aperti moltissimi interrogativi.
Tutti gli attori si impegnano al massimo per raggiungere l’obiettivo finale: confezionare un film dal ritmo incalzante ma non convulso, più psicologico che clamorosamente violento, in preparazione dell’atto finale.
E’ pur vero che alcuni hanno rilevato una certa diluizione della storia in virtù della separazione in due parti del romanzo conclusivo della trilogia; a nostro avviso invece abbiamo trovato una forte aderenza al romanzo, che viene seguito con precisione e senza tagli, ma allo stesso tempo senza palesi punti morti.
Dobbiamo pur dire che Katniss indugia in molte scene in uno stato palesemente stuporoso che alla lunga può risultare irritante, è allo stesso tempo altrettanto vero che chiunque in una situazione analoga, lo stupore sarebbe probabilmente l’effetto minimo ottenibile.
Nel complesso dobbiamo plaudere a questo terzo episodio, che tiene bene e fa il suo mestiere, magari senza fuochi d’artificio ma con piena dignità.
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La ragazza di fuoco.
Il canto della rivolta.
La ragazza di fuoco – regia di F. Lawrence
La ragazza di fuoco è probabilmente l’unico caso per il momento disponibile nella storia del cinema in cui il secondo film di una serie risulta essere qualitativamente migliore del suo predecessore.
Sicuramente l’ha fatta da padrone l’aumento del budget a disposizione della produzione: se per Hunger Games si è puntato il più possibile sulla creazione di un legame fortemente emotivo con la protagonista, per mantenere viva l’immedesimazione forte creata dal romanzo in prima persona, girando a proprio favore una limitatezza di budget che ha fatto volare basso la produzione e gli effetti speciali; con La ragazza di fuoco la possibilità di poter puntare più in alto, alzando l’asticella della completezza dello show, ha fatto sì che il prodotto confezionato fosse molto più godibile anche dal puro punto di vista estetico.
Va anche dato merito alla qualità recitativa degli attori, che se nel primo film era già elevata, in questo secondo episodio tocchiamo vette davvero apprezzabili.
La Lawrence sembra più matura e più consapevole di quello che è il suo talento, rimanendo comunque naturale, che è in fondo il suo punto di forza: tutto il film ruota attorno alla sua bravura e alla sua capacità di essere una ragazza forte e fragile, ma soprattutto disarmata davanti all’orrore in cui nuovamente, suo malgrado, è immersa. Una pedina che inizia a rendersi conto del suo status di pedina, alla quale nessuno dice niente ma di cui tutti cercano di deciderne le sorti in virtù della strumentalizzazione di quello che è stato solo un gesto di autoconservazione.
Sempre carino e inevitabilmente con un ruolo di sfondo, Josh Hutcherson rappresenta lui forse ancora meglio di Katniss il ruolo della vittima degli eventi: innamorato senza speranza, trascinato all’interno di una situazione in cui comunque la si giri risulta perdente, aspira esclusivamente a salvare la sua amata, in fondo crogiolandosi con semplicità all’interno della sua scarsa autostima e del suo senso di profonda inutilità. In questo episodio però il personaggio acquista agli occhi degli spettatori (e di Katniss quindi) una profondità che avevamo solo sospettato e viene gettato il seme di quello che sarà effettivamente il Grande Dubbio Amoroso nella protagonista e che si esprimerà al suo meglio nei prossimi episodi.
Una nota naturalmente anche per i nuovi personaggi secondari, che in questo episodio sono molti e con ruoli piuttosto rilevanti. Bisogna dire che a parte forse Finnick, figo ma non tanto da oscurare i protagonisti (chi ha letto il libro sa il perché di questa osservazione) che lascia un buon potenziale di approfondimento per i figuri sviluppi del personaggio, gli altri sono un po’ forzati all’interno dei loro stereotipi individuati nel romanzo. Wiress e Beetee sono calzantissimi nei personaggi ma un po’ freddi, Johanna Mason è perfetta nella parte della schizoide ma non riesce ad essere del tutto convincente a causa di una certa teatralità forse studiata ad arte, mentre gli altri sono del tutto marginali. Merita almeno una citazione per l’efficacia la scelta di rendere incapace di parlare l’anziana e dolce Mags, che con il suo sorriso disarmante riesce a rendere speciale un personaggio per il quale, anche nel romanzo, non si può non provare tenerezza.
Un consiglio a tutti gli amanti della saga: se ancora non avete letto i libri, non leggeteli prima di vedere il film. Quando abbiamo visto Hunger Games non avevamo letto il relativo romanzo e l’effetto è stato deflagrante per pathos e coinvolgimento emotivo; ora che abbiamo assistito alla proiezione de La Ragazza di fuoco dopo aver letto il romanzo ne siamo entusiasti ma decisamente meno sconvolti e molto più freddini. Ciò non toglie che per gli estimatori sia la lettura che la visione sono esperienze decisamente piacevoli e che consigliamo vivacemente.
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La ragazza di fuoco.
Il canto della rivolta.
Il lato positivo – regia di D.O.Russel
Pat è appena uscito dall’ospedale spichiatrico dopo otto mesi, fermo e risoluto sull’obiettivo da raggiungere: riconquistare al più presto sua moglie Nikki e riprendere la vita là dove era stata interrotta. Ma questo non è così semplice quando si ha a che fare con un’ordinanza restrittiva… ben presto entra in contatto con Tiffany, una giovanissima vedova, che ha la possibilità di intercedere per lui. La ragazza decide di aiutarlo, in cambio però del suo aiuto per una gara di ballo.
Forse non uno tra i film più originali mai visti, probabilmente nemmeno così stupefacente, visto che il “finale inatteso” si concretizza esattamente come ciascuno di noi si è già immaginato, però nel complesso si tratta di un film piacevole e anche piuttosto intelligente. Stiamo parlando de Il lato positivo diretto da David O. Russel, tratto dal romanzo di Matthew Quick Silver linings playbook, L’orlo argenteo delle nuvole, e non esattamente di un film qualunque. Innanzitutto può vantare un cast d’eccezione, con i belli e bravi Bradley Cooper e Jennifer Lawrence (conosciuta nel film neo cult Hunger Games che grazie al ruolo di Tiffany ha vinto tre premi, tra cui un Golden Globe e un Oscar, e scusate se è poco) e un Robert DeNiro d’eccezione nella parte secondaria ma rilevantissima del padre di Pat.
Per quanto concerne il film in sè, come dicevamo, la trama nei suoi tratti generali non è niente di speciale o di particolarmente originale, ma il valore aggiunto, secondo noi, risiede nei dettagli.
Pat ha un grosso problema con la gestione della rabbia, che l’ha portato appunto a trascorrere otto mesi in cura dietro ordinanza giudiziale, Tiffany ha elaborato come ha potuto il suo lutto rendendosi scostante, aggressiva e rifugiandosi nell’effimera consolazione della promiscuità, il padre stesso di Pat rivela un atteggiamento ossessivo-compulsivo nei confronti delle sue tanto tormentate partite di football, il migliore amico di Pat risulta incapace di difendersi da un moglie invadente che lo soffoca e lo tiene al guinzaglio.
Ciascun personaggio si presenta con una debolezza, con una fragilità psicologica che lo rende a suo modo normale, umano, rendendo quindi altrettanto umano e accettabile il disagio psicologico, ancora oggi considerato un tabù per molti. Gli attori, in particolare la Lawrence, sono stati molto bravi a trasmettere questa fragilità senza scadere nel grottesco o nell’eccesso, semplicemente rappresentando quella parte di noi che ad un certo punto può saltare e farci perdere l’equilibrio nella quotidianità.
A nostro avviso, parte del successo di questo film va attribuito alla forte impronta yankee che caratterizza la storia: l’amore viscerale per il football, le scommesse, la birra e gli stuzzichini, ma anche il semplice modo di fare, gli atteggiamenti che hanno gli attori in alcune circostanze (la scena della martingala a casa di Pat ne è un esempio lampante). Forse proprio questi accenti marcati di patriottismo rendono in alcuni momenti la recitazione forzata e stereotipata.
Nel complesso comunque è un film gradevole, probabilmente il romanzo da cui è tratto è anche meglio, considerando le possibilità di approfondimento interiore dei personaggi impossibile sullo schermo.
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O il libro: Il lato positivo. Silver linings playbook
Hunger Games – regia di G. Ross
Nel grande stato di Panem, a memoria di un’antica rivolta soppressa nel sangue, ogni anno prendono vita gli Hunger Games: un mortale reality show al quale sono costretti a prendervi parte due ragazzi per ciascuno dei dodici distretti, a sollazzo degli abitanti della capitale. Uno solo resterà in vita, in una lotta di sopraffazione e sopravvivenza. In uno dei distretti più poveri, la sedicenne Katniss si offre volontaria per salvare la vita alla sua sorellina Primrose. Forse, quest’anno, il dodicesimo distretto avrà un vincitore.
Questo l’incipit del film campione di incassi sbarcato il pimo maggio in Italia nelle sale: Hunger Games, diretto da Gary Ross. Tratto dall’omonimo romanzo di Suzanne Collins, questo film in apparenza si rivolge al target (ormai rodato) dei giovani adulti, sulla scorta dei successi di Harry Potter e Twilight. Alla proiezione però ci si accorge ben presto di essere di fronte a qualcosa di diverso, che coinvolge nel profondo spettatori di tutte le età, anzi, in particolare quello adulto.
In questo densissimo film (poco meno di due ore, così intense ed incalzanti che sembrano durare giorni interi) sono infatti presenti sfumature che solo un occhio più maturo può recepire ed apprezzare: degli spietati Hunger Games emerge non solo l’insensatezza della crudeltà gratuita e senza scopo, ma anche il gusto del sadismo, del voyerismo, del piacere morboso nel veder soffrire gli altri (in questo caso di un gruppuscolo di giovani terrorizzati che cercano di salvarsi la vita nonostante i furbi e gli addestrati ad uccidere), l’iniquità sociale, la strumentalizzazione dei sentimenti, la necessità di essere unici, di farsi ricordare per sopravvivere in una spettacolarizzazione della vita e della morte.
Apprezzabili comunque anche le altre chiavi narrative, quali l’aspetto sociale (la rivolta dei distretti poveri nei confronti della capitale, sfumatura appena presente in questo film ma che si svilupperà in modo più ampio nei prossimi episodi), l’aspetto avventuroso/violento (ottimo l’espediente già noto della telecamera a mano per le scene più concitate e cruente, in un gioco ancora più angosciante di visione ed intuizione della violenza) e l’immancabile, sigh, aspetto romantico, che in questo caso viene almeno proposto in un’accezione del tutto originale ed interessante.
Ottima la regia, che come detto ha saputo concentrare in poco tempo una quantità di eventi con una tale efficacia da catapultare lo spettatore nel tempo della storia, distogliendolo dal reale passare del tempo, come solo i grandi registi sanno fare.
Ottima la scelta degli attori, brillante Jennifer Lawrence, ormai osannata in tutte le occasioni, molto adatta e credibile nella parte della giovane guerriera, trasmette bene tutta la vasta gamma di sentimenti che Katniss prova. Un personaggio decisamente sfaccettato, questo, che lascia molti spunti aperti e sospesi, vitale, forte e al contempo fragile, mai banale o prevedibile.
Desideriamo aprire una piccola parentesi riguardo quello che ormai sembra infiammare nel profondo tutti i recensori in questi ultimi mesi: la somiglianza tra Hunger Games ed il meno noto e più crudo omologo giapponese, Battle Royale. E’ inutile fare mistero del fatto che l’idea fondante di Hunger Games non sia particolarmente originale: prima e dopo Battle Royale questa è stata infatti sfruttata più o meno indirettamente dalla cinematografia e dalla letteratura internazionale di genere. C’è da dire però che effettuare un paragone tout court tra HG e l’opera giapponese sia quantomeno semplicistico e superficiale. Senza dubbio Battle Royale è molto più incentrato sulla violenza, sulla crudezza senza esclusione di colpi nè censure, cristallizzando i personaggi in riconoscibili stereotipi.
Lo scopo di Hunger Games invece non risiede nella violenza, e non vi indulge più del necessario, perchè i suoi scopi sono altri: attraverso il gioco e la crudeltà gratuita mostra un mondo gretto e conformista, mette in luce gli aspetti sociali e psicologici della morbosità, della violenza vista dal di fuori, al sicuro, della sopraffazione, della mera crudeltà. In Hunger Games i tributi sono, infatti, solo pedine anche quando sono carnefici, perchè vittime, tutti, di un sadico volere superiore.
In attesa di leggere l’intera opera della Collins, consigliamo vivacemente la visione di questo film, che vi rapirà per due ore ma saprà lasciarvi qualcosa, dentro, che probabilmente sarà amaro e profondo, sulla nostra vita e la società e che saprà turbarvi molto più a lungo.
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